Lavoro intermittente, legittimo il licenziamento al compimento del 25esimo anno

Lo ha ribadito una recente sentenza della Cassazione

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 21/02/2018, n. 4223) ha sancito la piena legittimità della normativa italiana in materia di contratto di lavoro intermittente e/o a tempo che consente anche di assumere un lavoratore infraventicinquenne e licenziarlo al compimento del suo 25° anno di età.

La fattispecie giuridica che ha originato la pronuncia della Suprema Corte riguarda la legittimità di un licenziamento a fronte di  un contratto di lavoro a tempo con termine previsto al compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore.

Il fulcro della diatriba giuridica è costituito dal potenziale contrasto tra il divieto di discriminazione in base all’età, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali Ue e dalla direttiva 2000/78 Ce e la normativa in materia di contratto a chiamata, il cui scopo  è palesemente quello di flessibilizzare le fattispecie contrattuali al fine di rendere più semplice l’introduzione dei giovani nel mercato del lavoro.

Cosa dicono le leggi italiane sul lavoro intermittente

In proposito la precedente normativa in materia (DLT 10/09/2003,  all’’art 34) statuiva: “1. Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.
2.  Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età”.

In seguito alla modifica apportata nel 2005, (Art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, sostituito dall’art. 1bis, comma 1, lett. b, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni in legge 14 maggio 2005, n. 80), l’art. 34 II comma al momento recita così: “Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di eta’ ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati”.

Dalla riforma risulta che il fattore anagrafico sia diventato l’unico presupposto per la stipulazione di un contratto di lavoro intermittente, senza che abbia più rilievo l’ulteriore e importante requisito dello stato di disoccupazione sancito nella versione originaria del decreto n. 276/2003. Al di là dell’importanza ai fini della compatibilità con il diritto antidiscriminatorio europeo e nazionale, il riferimento allo stato di disoccupazione sarebbe servito soprattutto a rendere meno evanescente il collegamento con le finalità originarie di questo contratto, consistenti appunto nel contrastare il lavoro irregolare di soggetti che, in ragione della loro età, alternano periodi di lavoro e fasi di inoccupazione, perché impegnati in percorsi di studio e formazione o perché espulsi dal ciclo produttivo o in quiescenza.

Eppure, nonostante le successive e ripetute incursioni regolative, il legislatore non ha avuto ripensamenti su questo profilo, intervenendo semmai a distinguere tra l’età di sottoscrizione e l’età per eseguire la prestazione, precisando successivamente nel comma 2 dell’art. 34 che il contratto può essere sottoscritto da soggetti con meno di ventiquattro anni, fermo restando che le prestazioni contrattuali devono essere eseguite entro il venticinquesimo anno di età.

La vicenda processuale

La vicenda processuale che ha condotto alla pronuncia della Corte di Cassazione che qui si analizza, origina proprio dall’impugnazione del licenziamento intimato al lavoratore per raggiungimento del venticinquesimo anno di età, limite che secondo la Corte di Appello meneghina si palesa contraria al principio di non discriminazione in base all’età di cui alla direttiva 2000/78/Ce, poiché la disciplina contrattuale trova fondamento esclusivamente sull’età “senza alcuna altra specificazione, non essendo richiamata alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile”.

Nella sentenza di secondo grado i giudici milanesi accolgono il ricorso, condannano la società a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro e, di fatto, “disapplicano” la disposizione interna non conforme, a loro dire, al diritto UE escludendo il ricorso al rinvio pregiudiziale poiché la Corte di Giustizia si è già ampiamente espressa sulla portata e sui limiti della discriminazione diretta in base all’età.

Al contrario, la Suprema Corte nel momento in cui è stata investita della questione ha mostrato un atteggiamento più cauto, disponendo un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea al fine di valutare la compatibilità della normativa italiana sul lavoro intermittente con il divieto di discriminazione in base all’età sancito dalla direttiva 2000/78/Ce e dall’art. 21, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La sentenza della Corte UE sul lavoro intermittente

Con sentenza del 19 Luglio 2017 la Corte di giustizia si esprimeva in materia, ritenendo che “l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nonché l’art. 2, paragrafo 1, l’art. 2, paragrafo 2, lettera a), e l’art. 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari.”

La decisione della Cassazione

Ebbene a fronte di tale esplicita posizione assunta dalla magistratura comunitaria la Cassazione italiana nella sentenza n. 4223 del 21/02/2018  ha sancito  che “la Corte di giustizia, nella sentenza prima citata, ha offerto una risposta univoca e esaustiva ai quesiti formulati da questa Corte escludendo che le invocate norme di fonte UE ostino ad una disposizione nazionale come quella oggetto del procedimento principale”.

Ed ancora, nell’esprimersi sul ricorso effettuato dall’azienda che ha posto in essere l’esecuzione completa del contratto a tempo, con licenziamento al compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore ha stabilito che: “In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, l’art. 6, paragrafo 1, comma 1 della Direttiva 27 novembre 2000 n. 2000/78/CEE enuncia che gli Stati membri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.”

Per quanto concerne, in particolare, la classe dei lavoratori di età inferiore ai 25 anni, il governo italiano ha più volte ribadito durante l’udienza innanzi la Corte europea che la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente “in ogni caso” e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Lo stesso governo ha ripetutamente evidenziato che l’assenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani.

Inoltre, la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, può costituire un trampolino verso nuove possibilità di lavoro. Durante l’ udienza innanzi la Corte europea, il governo italiano ha ulteriormente chiarito che l’obiettivo principale e specifico della disposizione controversa nel procedimento principale non è quello di consentire ai giovani un accesso al mercato del lavoro su base stabile, bensì unicamente di riconoscere loro una prima possibilità di accesso a detto mercato. Si tratterebbe, con tale disposizione, di fornire loro una prima esperienza che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro. Pertanto, tale disposizione sarebbe relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro.

Si deve constatare che dette considerazioni legate all’accesso al mercato del lavoro e alla mobilità sono applicate ai giovani alla ricerca di un primo impiego, vale a dire ad una delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale. Queste forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, rendere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone minacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stesso tempo le forme di lavoro illegali.

Il governo italiano ha anche rilevato, in udienza, che è necessario che il maggior numero possibile di giovani possa far ricorso a tale tipo di contratto, al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito dalla disposizione nazionale. Da un punto di vista puramente scientifico, la Dottrina giuridica in questi anni ha sottolineato come, proprio nel settore dell’interpretazione del principio di non discriminazione, vi sia stata una fusione di orizzonti tra il livello interno, sovranazionale ed anche quello convenzionale (attestato dalle moltissime decisioni della Corte costituzionale che hanno applicato negli ultimi anni l’art. 14 della Cedu), reso più efficace dal carattere particolarmente intenso delle tutele previste dall’Unione (attraverso le Direttive a largo raggio del 2000 e l’approvazione ed implementazione giudiziaria della Carta dei diritti – che, inoltre, ex art. 52, comma 3, della stessa Carta – deve tenere in considerazione le decisioni della Corte di Strasburgo pertinenti per la materia trattata).

Pertanto non vi è alcuna evidenza e nemmeno plausibilità a favore della tesi per cui il nostro ordinamento possa offrire una diversa soluzione alla questione del carattere discriminatorio (anche sotto il profilo dell’irrazionalità) della disposizione qui in discussione, non solo perché nel settore le politiche dell’Unione sono particolarmente avanzate, ma anche in quanto gli obiettivi sociali menzionati dalla Corte di giustizia sono comuni al nostro ordinamento costituzionale.

Del resto la tecnica del legislatore italiano di facilitare l’impiego dei giovani attraverso strumenti di varia natura in deroga ai criteri generali è stata ripetutamente utilizzata e non ha portato, sul piano interno, ad una messa in mora “di principio” da parte della Corte delle leggi: non sembra in conclusione casuale che, da quel che emerge dagli atti, la difesa della parte intimata abbia in sostanza da sempre insistito, nelle sue argomentazioni, sui profili di illegittimità “sovranazionale” piuttosto che su quelli di incostituzionalità della disposizione prima ricordata.

Pertanto la Cassazione argomentando in questo senso e su tali presupposti, cassava la sentenza della Corte d’Appello di Milano, dichiarando legittimo il licenziamento del lavoratore al compimento del venticinquesimo anno di età senza che fossero necessari altre condizioni.

Francesca Dammacco

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