La Corte, infatti, si è pronunciata su un aspetto dell’istituto che, fin dalla sua introduzione (o meglio: dalla sua estensione ai lavori di pubblica utilità) aveva destato perplessità: l’esclusione dell’accesso ai lavori sostitutivi per tutti i conducenti che, in stato di alterazione alcoolica o da stupefacenti, avessero cagionato un incidente.
Tuttavia, se un principio di comune buon senso indurrebbe a ritenere tale, in ambito penale, quell’evento improvviso in cui almeno una persona sia rimasta ferita o, quantomeno, un altro veicolo sia rimasto danneggiato, la giurisprudenza, al contrario, ha sempre fornito dell’espressione “incidente stradale” un’interpretazione assai rigorosa, fino a ricomprendervi fattispecie in cui non solo nessuno era rimasto ferito, ma addirittura ad essere danneggiato era il solo veicolo del conducente in stato di alterazione !
La dottrina si era ben presto accorta del fatto che un’interpretazione estremamente rigorosa del dato letterale della norma rischiava di porre sullo stesso piano condotte di gravità assai differente, escludendo indiscriminatamente i loro autori dall’accesso ai lavori di pubblica utilità.
L’art. 186 C.d.S., infatti, mentre distingue il trattamento sanzionatorio in tre fasce progressive (da 0,5 a 0,8 g/l; da 0,8 g/l a 1,5 e, infine, oltre 1,5 g/l), in caso di incidente stradale non opera alcuna distinzione (!), escludendo indiscriminatamente l’autore a prescindere dalla quantità di alcool assunta.
Ciò costituisce, evidentemente, un aspetto paradossale: accade, così, frequentemente che soggetti che, magari, sono stati sorpresi alla guida con un tasso alcoolemico superiore a 2 g/l accedano al lavoro di pubblica utilità, ottenendo, tra l’altro, la conseguente estinzione del reato, quando soggetti che, in ipotesi, guidavano con un tasso di 0,52 g/l ma sono incorsi in un incidente o semplicemente hanno urtato parcheggiando, danneggiando solo la propria auto, risultano esclusi dai lavori di pubblica utilità e destinati a subire un’effettiva condanna penale.
La dottrina (e, nel suo piccolo, anche lo scrivente: cfr. “Lavori di Pubblica Utilità: dalla lettera della Legge alla prassi applicativa” pubblicato il 30/1/2013) si era, in verità, accorta ben presto del paradosso e invocava l’intervento della Corte Costituzionale sulla base di un preciso presupposto: così come costituisce, infatti, violazione dell’art. 3 Cost. (che sancisce il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla Legge) sottoporre situazioni identiche a trattamenti sanzionatori differenti, parimenti costituisce violazione del principio di uguaglianza assoggettare situazioni diverse al medesimo trattamento.
Ebbene, il tanto atteso pronunciamento è avvenuto con la Sentenza n° 247/13 del 24/10/2013, ma in direzione opposta a quella auspicata da buona parte della dottrina.
La Corte Costituzionale, infatti, ha recentemente ribadito il divieto di applicare il lavoro di pubblica utilità ai conducenti che, in stato di ebbrezza, abbiano provocato un incidente stradale.
La “…maggiore pericolosità…”, presunta dalla legge, di questi soggetti giustifica, secondo la Corte Costituzionale, il divieto di accesso alla sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità.
Tuttavia, questa distinzione non può non destare perplessità, sotto più profili e anche, in definitiva, in considerazione della vastissima applicazione che viene praticata –anche in funzione deflattiva del carico dei procedimenti- ormai dell’istituto dei lavori di pubblica utilità.
Negando la possibilità di accesso ai lavori di pubblica utilità ai conducenti che abbiano provocato un incidente stradale, a prescindere dal livello alcoolemico e dall’entità dell’incidente stesso, la Corte Costituzionale pare, invero, aver perso un’occasione irripetibile di applicare effettivamente l’art. 3 Cost. anche a questa categoria di destinatari.
Peraltro, la scelta della Corte desta qualche perplessità anche dal punto di vista sistematico, poiché se, da un lato, il Giudice delle Leggi statuisce che non bisogna effettuare alcuna distinzione, tra l’altro, circa il fatto che vi siano o meno feriti nell’incidente, dall’altro l’art. 589 c.p. (ovvero, l’omicidio colposo) prevede specificamente un’ipotesi aggravata in caso l’evento sia stato cagionato da soggetto in stato di alterazione ex art. 186 C.d.S.
Inoltre, proprio il rispetto dell’art. 27 Cost. – che sancisce il c.d. “finalismo rieducativo” della pena- imporrebbe che proprio le condotte più gravi siano assoggettate a meccanismi dal più spiccato valore rieducativo (come, appunto, i lavori di pubblica utilità), non il contrario !
Delude, pertanto, la pronuncia della Corte Costituzionale nella misura in cui legittima la permanenza nel nostro sistema penale di una previsione che lega a diversi paradossi (se ne sono richiamati alcuni supra) alcune sue applicazioni.
Forse, in questo senso, si rivelerebbe opportuno un progetto di riforma che, anziché chiudere sic et simpliciter le porte al meccanismo dei lavori di pubblica utilità a quanti hanno cagionato un (qualunque) incidente in stato di ebbrezza, distinguesse, invece, a seconda che nel sinistro sia rimasto ferito alcuno o meno, o magari prevedesse un periodo più lungo di lavori di pubblica utilità per quanti abbiano cagionato un incidente.
D’altra parte, è dato di comune percezione come i benefici legati all’applicazione dei lavori di pubblica utilità siano tali e di tale portata (l’estinzione del reato, la revoca della confisca dell’auto, la dimidiazione del periodo di sospensione della patente) che escluderne una consistente (circa la metà) platea di destinatari (che, peraltro, più di tutti ne abbisognerebbero, avuto riguardo al valore rieducativo dell’istituto) pare, invero, un paradosso.
Peraltro, e in ciò risiede un ulteriore paradosso, non sarà sfuggito come la giurisprudenza, in tema di lavori di pubblica utilità, abbia per il resto della disciplina recepito gradualmente un orientamento assai elastico, volto a favorire in ogni modo l’accesso all’istituto.
Due interrogativi che, infatti, fin dall’estensione del lavoro di pubblica utilità anche per chi veniva colto alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti si sono posti sono i seguenti: si possono iniziare i lavori di pubblica utilità prima che inizi il processo o, comunque, prima che venga emesso il decreto penale di condanna?
E inoltre: la sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità, se non richiesta dal difensore, può essere anche applicata d’ufficio dal giudice ?
Le applicazioni pratiche in vigore nei Tribunali (e alcune pronunce giurisprudenziali) consentono, oggi, di rispondere affermativamente ad entrambi gli interrogativi, con enormi benefici pratici per gli indagati.
E’, infatti, possibile (e costituisce ormai prassi diffusa pressochè in tutti i Fori) predisporre, con l’aiuto del proprio difensore e prima ancora che inizi effettivamente il procedimento penale, un programma di lavori di pubblica utilità da sottoporre al Pubblico Ministero procedente, in modo da beneficiare a brevissima distanza di tempo dal fatto, di tutti gli effetti favorevoli previsti dal lavoro di pubblica utilità, e in particolare: l’estinzione del reato, la revoca dell’eventuale confisca del veicolo, e, soprattutto, il dimezzamento del periodo di sospensione della patente di guida.
Sotto il profilo pratico, recandosi dal proprio difensore immediatamente dopo il fatto e predisponendo idoneo programma di lavori di pubblica utilità, il programma stesso potrà essere iniziato (e, talvolta, persino terminato) prima ancora di arrivare al giudizio, evitando così i tempi e i costi di un processo, ma anche anticipando notevolmente (si parla di diversi mesi) gli effetti positivi dell’istituto, come l’estinzione del reato.
Può sembrare un punto di arrivo banale ma così non è stato per diverso tempo fin dall’introduzione dell’istituto, complice una formulazione infelice della norma e un approccio all’istituto forse troppo prudente da parte della giurisprudenza.
Negli ultimi tempi, invece, le aule dei vari Fori (con poche eccezioni, ormai) si sono andate via via adeguando a quanto inizialmente statuito dal Tribunale di Firenze (2) e dalla Corte di Cassazione (3), arrivando ad affermare non solo la possibilità di iniziare i lavori di pubblica utilità e quindi di estinguere il procedimento prima ancora che questo arrivi di fronte al giudice, ma addirittura la possibilità per il giudice stesso di sostituire d’ufficio, senza richiesta da parte dell’interessato o del suo difensore, la pena detentiva nel corrispondente periodo di lavoro di pubblica utilità.
Inoltre, con sempre maggiore frequenza si registra la tendenza dei giudici ad ammettere lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità non soltanto presso gli Enti che abbiano stipulato un’apposita convenzione con i Tribunali, ma anche con altri Enti (ad es. le Croci Verdi, Bianche, ecc.) che offrano adeguate garanzie di serietà.
La pronuncia della Corte Costituzionale, invece, muovendo in direzione contraria, ci riporta indietro nel tempo, di fatto finendo, paradossalmente, con l’equiparare la situazione di chi ha cagionato un lievissimo sinistro stradale senza alcuna conseguenza per terzi a quanti, invece, si sono resi autori di gravi danni alle persone.
Sarebbe opportuno, forse, un progetto di riforma che preveda l’accesso al lavoro di pubblica utilità per i conducenti che, pur avendo provocato un incidente, non hanno cagionato alcun danno a persone.
Al momento, tuttavia, l’unico modo per poter applicare anche ai soggetti di cui sopra il lavoro di pubblica utilità sembra essere quello di accertare, all’esito del giudizio penale, la sussistenza o meno del sinistro stradale o che questo non sia dipeso da causa imputabile al conducente in stato di ebbrezza/sotto l’effetto di stupefacenti.
(1) Corte Cost. n° 247/2013
(2) Trib. Torino 20/1/2011
(3) N° 22048/12
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