Lavoro di pubblica utilità: dalla lettera della legge ai problemi applicativi

Daniele Pomata 30/01/13
A quasi due anni dall’introduzione, avvenuta ad opera della L. n. 120 del 2010, della possibilità di far luogo, anche per i reati – di competenza del tribunale – di cui agli artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992, all’istituto del lavoro di pubblica utilità, la recentissima sentenza della Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 22048, resa dalla Suprema Corte, nonché i numerosi problemi posti dalla prassi applicativa e le differenti soluzioni adottate dagli operatori del diritto sollecitano riflessioni quanto mai opportune.

Sullo sfondo, si collocano due distinti quesiti che hanno accompagnato l’istituto fin dalla sua introduzione; il più risalente e dotato di maggiore rilevanza pratica di essi è l’interrogativo se il lavoro di pubblica utilità possa essere iniziato fin dalla fase delle indagini preliminari, con l’autorizzazione del Pubblico Ministero, o, comunque, prima dell’emissione del Decreto Penale di condanna, esito naturale della stragrande maggioranza dei procedimenti per violazione degli artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992.

Altro interrogativo, di minore impatto nella prassi ma ugualmente imprescindibile nel contesto di un tentativo di delineare esaustivamente la disciplina applicativa dell’istituto de quo, è se la sostituzione della pena irrogata con il lavoro di pubblica utilità, non richiesta davanti al Giudice di prime cure, possa essere disposta anche dal Giudice dell’impugnazione e, in caso affermativo, se detta sostituzione possa essere disposta anche d’ufficio.

Al quesito (o meglio, ad entrambi i quesiti) sollevati, già dalle prime applicazioni della L. n. 120 del 2010, dalla dottrina e dalla prassi, i Giudici di merito (e, nel caso del secondo quesito, la recentissima Cass. n. 22048 del 2012) hanno da non molto cominciato a fornire soluzione affermativa.

La rilevanza pratica della prima questione è evidente: poiché, a mente dell’art. 186, comma 9-bis, D.lgs. n. 285 del 1992, al positivo esperimento del periodo determinato di lavoro di pubblica utilità (istituto, peraltro, come vedremo in seguito, tutt’altro che sconosciuto al nostro ordinamento penale) consegue, oltre a quello della revoca della confisca e a quello, rilevantissimo – trattandosi non di rado di soggetti incensurati – dell’estinzione del reato, l’effetto di dimidiare la durata della (sanzione accessoria della) sospensione della patente di guida, tanto più quest’ultima conseguenza premiale risulterà efficace, quanto prima il programma di lavoro di pubblica utilità verrà iniziato (e terminato).

In questo senso, è la stessa prassi applicativa, nel contempo, a porre il problema e fornirne la soluzione.

Occorre, però, per evitare di confrontarsi unicamente con il mero dato astratto, muovere da un’esemplificazione operativa concreta: è dato di dominio comune, infatti, che in caso di violazione degli artt. 186 ss. D.lgs. n. 285 del 1992, spetti alla Prefettura emanare, come normalmente avviene, un primo provvedimento cautelare di sospensione della patente di guida, per un periodo determinato ma generalmente ancorato in maniera piuttosto rigorosa ai tre “scaglioni” (0,5-0,8; 0,8-1,5; oltre 1,5 g/l) previsti dall’art. 186.

Peraltro, ma su ciò torneremo in seguito, non mancano interpretazioni giurisprudenziali più “garantiste” e, a sommesso avviso di chi scrive, maggiormente conformi al tenore letterale della disposizione richiamata da ultimo e dell’art. 2 L. n. 241 del 1990, che ritengono applicabile la sospensione cautelare disposta dalla Prefettura solo nel caso di violazioni dell’art. 186 costituenti reato (quindi, con esclusione della “fascia” fino a 0,8 g/l) e/o in presenza di motivi concreti a sostegno di una misura che, giova ricordarlo, rivestendo natura (puramente) cautelare deve necessariamente riposare non solo su un fumus (commissi delicti) ma altresì su un periculum in mora rappresentato dal concreto pericolo che la disponibilità della patente di guida potrebbe costituire per il trasgressore/ indagato .

Ciò, come rilevato da alcuni Autori, in analogia a quanto avviene in materia di sequestro del mezzo, ove si richiede un «… nesso strumentale tra la res e la perpetrazione del reato …» .

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Daniele Pomata

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