Avete presente quelle situazioni di crisi familiare in cui gli ex partners non solo conducono una agguerrita separazione giudiziale, ma approfittano della comunanza di vita e di informazioni che si aveva prima della rottura per instaurare contenzioso su tutti gli aspetti possibili, tra cui divisione della casa, delle società, restituzione prestiti, rimborso garanzie e chi più ne ha più ne metta?
Sono i casi, purtroppo non così rari, in cui a seguito della disgregazione della coppia si instaura un vero e proprio «grappolo» di cause, a danno quasi sempre sia dei membri della famiglia stessa, tra cui segnatamente i minori, sia dell’efficienza del sistema giudiziario.
Nella quasi totalità di queste situazioni non c’è verso di raggiungere soluzioni consensuali, né di praticare efficacemente tecniche di mediazione, dal momento che l’intento dei due ex partners è più che altro quello di vendicarsi l’uno dell’altro, anche a costo non solo di danneggiare sè stessi, ma anche i figli – tanto la colpa, nel caso, è sempre «dell’altro».
La magistratura, operando con cognizione quasi sempre costretta nell’ambito del singolo procedimento, probabilmente nemmeno stimolata in modo adeguato dagli avvocati difensori, non ha quasi mai avuto occasione di intervenire con una visione più d’insieme o di sistema in situazioni come queste, valutando i contenziosi e la situazione familiare nel suo complesso.
Una recente sentenza del Tribunale di Varese, tuttavia, sembra cambiare registro e riconoscere l’abuso del processo nelle cause di famiglia, tracciando un precedente che, se saprà essere adeguatamente compreso e consolidato, potrebbe diventare un importante strumento di politica giudiziaria.
Vediamo innanzitutto, come al solito, il caso. Le parti sono marito e moglie, che da anni si combattono in Tribunale per via di una separazione giudiziale. Oltre alla causa di separazione, i due avevano dato il via ad altri tre procedimenti, tra loro e le rispettive società: un’opposizione ad un’esecuzione forzata, un recupero crediti e infine un’opposizione a decreto ingiuntivo, che è poi il procedimento che ci interessa, quello dove il Tribunale ha fatto riferimento all’abuso del processo.
In questa procedura, appunto, la moglie, quale legale rappresentante della propria società, si era opposta formalmente all’ingiunzione ottenuta dalla società «del marito» di restituire un macchinario, sebbene ben sapesse che lo stesso le era stato concesso in comodato e che quindi avrebbe dovuto restituirlo. Addirittura, la donna si era precedentemente impegnata a farlo.
L’opposizione si è rivelata manifestamente infondata e, per di più, sorretta da un elemento soggettivo di rimproverabilità (quale la colpa). La donna, alla luce dei fatti, avrebbe agito in mala fede solo per fare un dispetto all’ex coniuge. Il Tribunale condanna la società della ex moglie a pagare la somma di diecimila euro, per abuso di processo.
L’abuso di processo è definito come ‘’l’esercizio o la rivendicazione di un diritto, che in astratto spetta effettivamente a colui che lo esercita e rivendica ma che, in concreto, non comporta alcun vantaggio apprezzabile e degno di tutela giuridica e che comporta, invece, un preciso danno a carico sia del soggetto contro cui viene esercitato o rivendicato sia dell’erario (e quindi della collettività)’’.
L’art. 96, comma 3°, c.p.c., introdotto dalla legge n. 69 del 2009, prevede che «quando pronuncia sulla spese … il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
Volgendo l’attenzione alla ratio della neo disposizione, emerge con chiarezza che ‘’si tratta di una sanzione’’ per aver prodotto un contenzioso civile che non doveva essere prodotto, aggravando il ruolo giudiziario e contribuendo al ritardo nella definizione dei processi. Con tale disposizione si prevede, infatti, un caso particolare di ‘’responsabilità aggravata’’, speciale rispetto al 2043 c.c., con la conseguenza che va esclusa l’applicazione diretta di quest’ultima norma in tutte le ipotesi di illecito processuale.
L’art. 96.3 c.p.c. risulta, dunque, applicabile alle controversie in materia di famiglia, e possiede la precipua funzionalità di sanzionare l’abuso del processo, che in tali controversie può spesso verificarsi.
Da notare che il giudice di Varese non si è fermato di fronte alla constatazione del fatto che le parti in causa non fossero gli stessi coniugi, ma diversi soggetti giuridici e cioè società facenti capo agli stessi, adottando quindi una visione più sostanziale della situazione e di fatto sorpassando il famoso velo della personalità giuridica.
Ma se ciò può costituire per il cittadino ”medio” una misura efficace per distoglierlo da azioni legali evidentemente infondate, lo stesso può dirsi per soggetti con rilevanti possibilità economiche … col solo intento di costringere a trattative e transazioni evidentemente inique la parte più debole, come spesso accade per l’ex coniuge? Può essere che il potere discrezionale concesso al giudice di dosare adeguatamente la sanzione, se da un lato lascia perplessi per l’assenza di un sia pur minimo limite, possa essere uno strumento utile sotto questo aspetto.
Nel prossimo intervento, parleremo dell’istituto dell’abuso del diritto più in generale, senza riferimenti specifici all’ambito del diritto di famiglia.
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