La riforma del regime dei suoli: una promessa tradita

Angela Bruno 14/02/11
La pianificazione urbanistica, in particolare i vincoli espropriativi, ha un suo fascino se la si osserva attraverso il filtro della “funzione sociale della proprietà”. Si tratta di verificare la capacità di resistenza del diritto domenicale rispetto ad altri valori sui quali si fonda il nostro ordinamento.

La Costituzione, nel tentativo di far coesistere il pubblico e il privato, ha abbandonato l’idea di proprietà quale diritto assoluto e illimitato, garantendo la stessa in un’ottica sociale. Nel far questo, peraltro, si è ricordata di tutelare il principio di legalità dei pubblici poteri, vietando a detti poteri di violare le regole che essi stessi si sono dati. Tuttavia, è ancora forte la tensione tra pubblico e privato, che svela, in tutta la sua ampiezza, il problema cardine di come organizzare socialmente la vita.

Non è un caso, infatti, che l’espropriazione per pubblica utilità, per dirla come Nicolini, costituisca il punto di incontro più drammatico tra autorità dello Stato e autonomia privata. Le sorti della proprietà privata, e la necessità di conciliare gli interessi collettivi con i diritti dei singoli, ha sempre dato spazio ad un gioco sottile di costruzione, demolizione e ricostruzione di concetti, nel tentativo di precisare, sotto l’aspetto della garanzia, in che modo opera la funzione sociale.

Detta funzione, per l’art. 42, comma 2, Costituzione, si pone come presupposto per il riconoscimento della proprietà. Tuttavia, la funzione sociale non deve intendersi come intervento “in odio” alla proprietà privata, ma, seguendo gli insegnamenti di Perlingieri, quale “ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito a un certo soggetto”. Detta visuale obbliga il legislatore e l’interprete a non leggere isolatamente e in senso letterale il comma 3 del citato articolo, che, a proposito di espropriazioni, detta disposizioni che ricordano lo Statuto Albertino.

Bisogna, quindi, spostare l’attenzione su quegli avvenimenti, di particolare valore significativo, che danno l’idea di un profondo cambiamento del clima politico e giuridico, nel quale l’articolo 42 è chiamato ad operare.

Per centrare i termini della questione, si deve cogliere il senso del testo nei suoi aspetti fondamentali: la legalità dei modi di acquisto, di godimento e dei limiti; la funzione sociale e i contenuti minimi della proprietà.

Spetta, infatti, alla legge determinare “i modi di acquisto, di godimento e i limiti”, tenendo presente che la proprietà privata non può essere svuotata del suo contenuto essenziale, ma, piuttosto, può essere sottoposta a programmazione, limiti e controlli. Nonostante gli sforzi, provenienti da più parti, tutto è ancora vulnerabile. Non è un caso – la normativa e la giurisprudenza ne sono testimoni – che la materia rispecchi fedelmente il travaglio economico, sociale e politico dell’Italia in un preciso momento storico.

È sufficiente leggere la recente sentenza del T.A.R. Campania, Salerno, n. 112 del 26 gennaio scorso, per rendersi conto che il complesso e cangiante contenuto della proprietà continua a confrontarsi con l’interesse pubblico, senza trovare sagge soluzioni.

Detta decisione, per quanto d’interesse, afferma che: “la intervenuta scadenza dei vincoli preordinati all’espropriazione, o comunque sostanzialmente ablativi, per effetto del decorso del termine di efficacia quinquennale comporta che l’area rimane priva di disciplina urbanistica ed è soggetta alle previsioni di cui all’art. 4 ultimo comma della legge n. 10/1977 (ora art. 9 del T.U. n. 380/2001), sino all’adozione, da parte del Comune, di nuove, specifiche prescrizioni”.

Il problema della disciplina urbanistica delle aree, dopo la decadenza quinquennale del vincolo, viene risolto con l’imposizione di un’ulteriore destinazione vincolata. Il vecchio espediente per protrarre i vincoli a piacimento dimostra di avere un lungo passato e una buona prospettiva di futuro.

Sarebbe più ragionevole ritenere che l’area, decorso il periodo di franchigia per colpa dell’inerzia dell’amministrazione, riacquisti le possibilità edificatorie che il vincolo le aveva tolto.

Se si volesse percorrere detta via, di certo, non mancherebbero argomenti convincenti. Non sembra, infatti, riguardosa delle garanzie costituzionali a tutela della proprietà aggiungere ai vincoli urbanistici, espropriativi o di inedificabilità, un ulteriore vincolo fortemente limitativo dello jus aedificandi.

Neanche convince il percorso argomentativo del giudice amministrativo il quale, con la solita musica, continua a ripetere che l’assenza di una destinazione urbanistica, nella zona incisa da vincolo decaduto, non pone problemi di legittimità.

I temi, come quello in oggetto, che vedono lo scontro tra interesse generale e libertà del singolo, si prestano a non essere mai conclusi. Ma è vero, altresì, che la questione relativa al rapporto tra procedimenti espropriativi e le procedure urbanistiche, è stata totalmente dimenticata. Come ricorda Ovidio: Nil adsuetudine maius.

Il legislatore, affaticato dalla difesa di ben altri interessi, non ha mantenuto la promessa di riformare il regime dei suoli. Ciò ha impedito la sistemazione unitaria della materia urbanistica e, conseguentemente, la soluzione del delicato rapporto degli interessi in conflitto, nel rispetto delle garanzie costituzionali.

Angela Bruno

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