La rielezione del Presidente della Repubblica

La rielezione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rappresenta un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica.

L’art. 85 della Costituzione si limita a disporre che “Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni”, senza nulla indicare su possibile rielezione.

Nel dibattito in assemblea costituente era stato approvata, dalla prima Sezione della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, una prima formulazione dell’art. 85 che così prevedeva “Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni e non è rieleggibile”.

Nel dibattito successivo la previsione di non rieleggibilità è stata eliminata.

Della non immediata rieleggibilità del Presidente della Repubblica si è discusso molto.

La questione è stata addirittura fatta oggetto di un messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Antonio Segni nel settembre 1963 nel quale si legge: “La nostra Costituzione non ha creduto di stabilire il principio della non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, ma mi sembra opportuno che tale principio sia introdotto nella Costituzione, essendo il periodo di sette anni sufficiente a garantire una continuità nell’azione dello Stato. La proposta modificazione vale anche ad eliminare qualunque, sia pure ingiusto, sospetto che qualche atto del Capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione. Una volta disposta la non rieleggibilità del Presidente, si potrà anche abrogare la disposizione dell’articolo 88 comma 2 della Costituzione, il quale toglie al Presidente il potere di sciogliere il Parlamento negli ultimi mesi del suo mandato. Questa disposizione altera il difficile e delicato equilibrio tra i poteri dello Stato, e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti. I due punti, che segnalo al Parlamento perché nella sua sovranità li esamini con serenità per una eventuale revisione della Costituzione, mentre non toccano le linee fondamentali di essa, riguardano aspetti d’importanza notevole per lo sviluppo democratico del Paese”.

I disegni di legge di modifica costituzionale, che seguirono tale messaggio, non sono stati approvati dal Parlamento.

Più recentemente, il Presidente Ciampi, rispondendo alle ipotesi di una sua rielezione, affermava: “il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato“.

Rispetto ai poteri del Presidente, l’art. 91 dispone “Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune”.

In caso di rielezione, avvenuta prima della scadenza del mandato, probabilmente, per entrare nella pienezza delle funzioni, dovrà dimettersi prima di presentarsi dinnanzi al Parlamento in seduta comune per prestare giuramento.

Ma al di là delle questioni giuridiche e costituzionali, la vicenda della rielezione del Presidente Napolitano – per il contesto nel quale è maturata – sancisce paradossalmente la crisi profonda del sistema politico e dei partiti.

Il messaggio del Presidente, che ha accolto la pressante richiesta delle forze politiche, rende merito al servitore dello Stato: “Mi muove – ha affermato – in questo momento il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità”.

In questa fase così difficile della storia della Repubblica, appaiono ancora più intollerabili manifestazioni e dichiarazioni che arringano la folla parlando di “colpo di stato”.

Ancora più intollerabili, se tali dichiarazioni vengono urlate brandendo il nome di un autorevolissimo candidato alla Presidenza della Repubblica, Stefano Rodotà, – di cui probabilmente la gran parte ignora la storia politica e culturale – non eletto dal Parlamento.

Tanto da costringere lo stesso Rodotà a chiarire la sua posizione.

Le sue parole valgono più di qualsiasi commento: “Sono sempre stato convinto che le decisioni parlamentari possano e debbano essere discusse e criticate anche duramente, ma partendo dal presupposto che si muovono nell’ambito della legalità democratica costituzionale. Io sono contrario a qualsiasi marcia su Roma”.

Le parole hanno un senso e non possono essere utilizzate come macigni per tornaconto elettorale, soprattutto in una fase così difficile della nostra storia.

Preoccupa la necessità di dover precisare, da parte dei Presidenti delle Camere, principi fondamentali di qualunque ordinamento democratico: “La libertà di espressione del dissenso, anche nelle forme più nette, è una delle caratteristiche più preziose e irrinunciabili della democrazia. E le scelte che si compiono in Parlamento sono doverosamente esposte ad ogni critica. Ma non è accettabile che venga qualificato con l’etichetta infamante di “golpe” il percorso limpidamente democratico che ha portato all’elezione del Capo dello Stato. Qualunque sia il loro giudizio sulla scelta compiuta a larga maggioranza dalle Camere riunite, tutti i cittadini italiani possono sentirsi garantiti da una procedura che ancora una volta ha rispettato integralmente la Carta costituzionale”.

E’ auspicabile non dover più ricorrere a tali dichiarazioni.

 

Carlo Rapicavoli

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