La politica dei tagli e la storica riforma delle province della Sicilia

Oggi la parola d’ordine per rincorrere il consenso è “tagli”. Non importa come, non importa se avulsi da un disegno organico di interventi.

Scrive Luca Ricolfi: “La politica non sa risolvere i propri problemi politicamente, e allora ricorre continuamente a supplenti e surrogati. C’è un problema di privilegi e di costi della politica? Ed ecco che scatta la gara a chi si riduce di più lo stipendio: l’etica viene chiamata a sostituire la politica”.

Come ormai accade da anni, non può mancare il tema dell’abolizione delle Province e della riduzione dei Comuni, indicati come obiettivi prioritari per il Paese.

Ma tagliare le rappresentanze politiche locali e gli enti può servire davvero a garantire bilanci attivi e amministrazioni efficienti?

E’ questa una soluzione adatta?

Le risposte evidentemente attengono tutte alla sfera politica.

Oppure a noi sembra che ci siano le condizioni perché si possa giungere ad una riforma organica che punti alla semplificazione reale e alla modernizzazione del nostro sistema attraverso una coerente individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Regioni e un profondo ripensamento dell’adeguatezza dimensionale di ogni livello di governo affinché le istituzioni territoriali possano esercitare effettivamente le loro funzioni in autonomia e responsabilità ed eliminando davvero strutture, organismi ed enti non rappresentativi che appesantiscono il sistema, determinano i veri costi occulti della politica e allontanano i cittadini dalle Istituzioni.

Chi immagina di rispondere alla pressante e ineludibile richiesta di pulizia e di riduzione dei costi che proviene dall’opinione pubblica ipotizzando semplicemente soppressioni di livelli essenziali di governo non fa il bene delle Istituzioni e non si raggiunge l’obiettivo sperato.

Al contrario su tutta la pletora di Enti che ingessano la struttura amministrativa è sempre più fitta la nebbia e non si manifesta espressamente una volontà di intervento, con effetti immediati e reali di semplificazione amministrativa e di risparmi di spesa, questa sì una volontà coerente con i principi costituzionali.

Quanto sta accadendo in Sicilia è emblematico dell’attuale periodo storico. La Sicilia, spesso additata come esempio di malcostume politico, di sprechi, oggi, per fortuna, sembra aver intrapreso la strada delle riforme di quell’apparato elefantiaco costruito dalla Regione, in nome spesso di un uso distorto e negativo dell’autonomia speciale.

In questo laboratorio politico, che ambisce a proporsi come modello di governo anche a livello nazionale, tuttavia si cade in quegli interventi demagogici, utili ad ottenere consenso mediatico – purtroppo sempre meno approfondito e sempre più disinformato – ma privi di un vero, efficace ed organico intervento.

Naturalmente il tema è sempre quello delle Province. Quanto mi piacerebbe poter affermare che la decisione dell’Assemblea Regionale Siciliana sulle Province possa essere un modello per l’Italia, che sia una bella testimonianza di buona politica o l’attuazione concreta dell’autonomia speciale.

In realtà così non è.

Così non è malgrado le quasi unanimi attestazioni di “riforma storica” apparse sugli organi di stampa nazionali e locali, malgrado le solenni ed entusiastiche dichiarazioni del Presidente della Regione e dei rappresentanti delle forze politiche che hanno votato la riforma.

Singolare la polemica tra Crocetta e il Movimento Cinque Stelle per rivendicare la paternità della grande riforma.

Dichiarano i consiglieri regionali del Movimento Cinque Stelle:Gli articoli di giornale dimostrano chiaramente che questo Governo e questo Parlamento Siciliano non volevano fare una seria abolizione delle province ma volevano semplicemente riformare gli enti provinciali non tagliando i costi della politica, l’intervento del M5S è stato invece fermo e netto: aboliamo le province! Facciamo questa scelta coraggiosa perché è questo il momento giusto per farlo. Abbiamo tenuto la barra del timone dritta e riportato sui binari giusti la discussione. Ieri sera, finalmente la votazione, a fronte di una lunga discussione dove abbiamo approvato questo disegno di legge che riduce le province semplicemente a liberi consorzi di comuni senza più le elezioni”.

Secca la replica del governatore: “Nessuno di noi avrebbe mai scommesso un euro che l’Ars avrebbe mai accettato l’abolizione delle Province. I grillini hanno sicuramente compartecipato a un processo che rientrava nel mio e nel loro programma elettorale ma la maggioranza ce l’avrebbe fatta anche soltanto con le sue forze. Anche se si fossero astenuti il ddl sarebbe passato. Non mi piace che si dica sia una legge dei grillini visto che il governo l’ha presentata e la maggioranza ha risposto alla grande. Se l’avessero voluta solo i grillini sarebbe finita al macero”.

Non c’è una trasmissione televisiva o un organo di stampa che non enfatizzi la portata storica di tale riforma. Nel dibattito nazionale è diventata una delle priorità per salvare il Paese

Ma in che consiste questa riforma storica tanto declamata e rivendicata?

La riforma si articola in quattro punti:

1. Entro il 31 dicembre 2013 la Regione, con una nuova legge, dovrà disciplinare l’istituzione dei liberi Consorzi comunali per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta, in sostituzione delle Province regionali, dando così attuazione all’articolo 15 dello Statuto speciale della Regione siciliana,

2. Gli organi di governo dei nascenti liberi consorzi comunali dovranno essere eletti con sistema indiretto di secondo grado.

3. La legge nuova legge dovrà disciplinare l’istituzione nel territorio della Regione delle città metropolitane.

4. Al fine di consentire la riforma è sospeso il rinnovo degli organi provinciali e le Province vengono commissariate.

Due considerazioni preliminari.

L’art. 15 dello statuto, espressamente richiamato, prevede “L‘ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria”.

Lo Statuto dunque – che ha valenza di norma costituzionale – prevede tre livelli di governo, con autonomia amministrativa e finanziaria, Regione, “liberi consorzi comunali” che corrispondono alle Province per il resto d’Italia e Comuni. A differenza di quanto previsto dall’art. 114 della Costituzione, non sono previste le città metropolitane.

L’art. 3 della Legge Regionale 6 marzo 1986 n. 9 prevede: “L’amministrazione locale territoriale nella Regione siciliana è articolata, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto regionale, in Comuni ed in liberi consorzi di Comuni denominati “Province regionali”.

Dunque le attuali Province sono già i “liberi consorzi comunali” previsti dall’art. 15 dello Statuto.

Allora qual è la riforma storica?

La legge approvata dall’assemblea regionale siciliana il 20 marzo non sopprime alcun Ente né introduce alcuna riforma. E’ una norma che rinvia ad altra norma seguendo il discutibile schema adottato dal Governo nazionale nell’ultimo anno a colpi di decreti legge che rinviavano ad altre norme.

La nuova legge, da emanare entro il 31 dicembre 2013, non dovrà istituire i “liberi consorzi comunali” perché esistono già sotto il nome di “Province Regionali”, semmai dovrà riformarle rispetto all’attuale ordinamento contenuto nella citata L. R. 9/1986.

La riforma storica è semplicemente al momento quella di impedire il rinnovo degli organi delle Province e il conseguente commissariamento delle nove “Province regionali” della Sicilia e la previsione che i “nuovi” liberi consorzi dovranno prevedere l’elezione di secondo grado.

Esattamente come avvenuto per il resto d’Italia con le riforme incompiute del Governo Monti e le disposizioni del decreto salva Italia e del decreto spending review.

E ciò malgrado con grande enfasi lo stesso Presidente Crocetta aveva annunciato la sua ferma volontà di rinnovare gli organi delle Province, in quanto “luoghi di democrazia e di rappresentanza dei cittadini”.

E non solo annunciato, ma tradotto in atti con la deliberazione della Giunta Regionale n. 31 del 31 gennaio 2013 che aveva fissato per i giorni di domenica 21 e lunedì 22 aprile, con gli eventuali ballottaggi il 5 e il 6 maggio, le date per le elezioni amministrative dei presidenti e dei consigli provinciali delle nove Province dell’isola, in aperta e dichiarata controtendenza rispetto alla scelta nazionale di commissariare le Province in attesa del riordino.

Nell’annunciare la grande riforma di soppressione delle Province, con un ripensamento tanto repentino quanto inspiegabile, è stato enfatizzato il principio autonomistico; dalle dichiarazioni espresse in assemblea regionale dallo stesso Presidente si legge: “Il nostro Statuto ha ipotizzato una Regione completamente diversa rispetto a quella delle Province, cioè ha rifiutato l’idea dello Stato che era venuto dall’Unità d’Italia, e mi meraviglia che gli autonomisti non colgano neppure una vicenda storica e culturale che ha diviso per anni questa Regione, rispetto anche all’impostazione nazionale basata sui prefetti, sulle province, un meccanismo che, sostanzialmente, è autoritario, perché non è che le province sono espressione della democrazia, sono elementi di sovrapposizione intermedia rispetto all’esercizio della democrazia che il nostro Legislatore costituente – in questo caso, diciamo l’Assemblea regionale siciliana – ha inteso affidare ai comuni e lo prevede”.

E precisato gli obiettivi: “Guardate, quello che si fa oggi è storico, non perché noi vogliamo dare valenza storica all’elemento dell’eliminazione delle Province, ma perché è storico che c’è un Parlamento che trova il coraggio di dire a quei tanti amici Consiglieri provinciali che si vorrebbero ricandidare di dire che noi non abbiamo niente contro le Province in sé, ma vogliamo semplicemente organizzare meglio, sburocratizzare il lavoro della Regione, semplificare il lavoro della Regione, dare più ruolo ai Comuni. Con questo disegno di legge Catania, Palermo e Messina si salvano dal default perché si permette loro la costituzione di Città metropolitane, e come saranno definite lo vedremo insieme. E sganciamo i Comuni piccoli dalla logica delle grandi metropoli, liberando le metropoli da questi problemi e le piccole città e i piccoli comuni da politiche che non li possono riguardare”.

E da tutte le dichiarazioni successive si ricava: “Con l’abolizione delle province solo sulle indennità di carica risparmieremo oltre 10,3 milioni di euro all’anno, per le attività istituzionali altri 50 milioni di euro all’anno, se poi aggiungiamo anche le società partecipate e i debiti che accumulano, raggiungiamo la somma di un risparmio di circa 100 milioni l’anno”.

Dunque dall’intervento in aula si possono ricavare in sintesi gli obiettivi della riforma:

1) Migliore organizzazione degli enti

2) Sburocratizzare il lavoro della Regione (che dovrebbe intendersi come maggiore decentramento)

3) Dare più ruolo ai Comuni (quindi con trasferimento di funzioni)

4) Salvare dal default i Comuni di Catania, Palermo e Messina attraverso la costituzione delle città metropolitane (come se la loro trasformazione garantisse il risanamento finanziario);

5) Politiche territoriali diverse ed autonome per i piccoli centri rispetto alle città metropolitane

6) Risparmio di spesa.

Ma abbiamo visto che l’art. 15 dello Statuto prevede ben altro: tre articolazioni – Regione, liberi consorzi di Comuni e Comuni – tutti ugualmente e paritariamente “dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria”.

Esattamente come prevede lart. 114 della Costituzione: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione”.

Lo Statuto della Regione prevede dunque un ente intermedio – il “libero consorzio di comuni” – che è cosa ben diversa da un consorzio di funzioni cui sembra farsi riferimento in tutte le dichiarazioni rese alla stampa.

Si parla di risparmi quantificati sommariamente, senza alcuna dimostrazione concreta, in 50 milioni di Euro.

Ma tali risparmi potevano essere realizzati in modi diversi, molto più semplici e senza “storiche rivoluzioni”: ad esempio modificando l’assetto degli organi di governo delle province, ferme restando le province stesse, rendendoli di “secondo grado”, emanazione non del voto del corpo elettorale, ma dei consigli comunali.

Ma ancora una volta si corre il rischio di confondere i costi della politica con i costi della democrazia.

E’ lecito discutere sulle forme di rappresentanzadiretta o indiretta – soltanto dopo aver definito quale funzioni sono chiamati a svolgere gli enti intermedi di cui ormai nessuno mette in dubbio la necessità per una funzionale organizzazione amministrativa.

Il disegno riformatore non dice invece alcunché su (solo per fare qualche esempio):

1) Quali sono le “funzioni di governo di area vasta” che dovranno essere attribuite ai liberi consorzi di Comuni?

2) Come sarà gestito il patrimonio delle attuali “province regionali” spesso indivisibile: si pensi agli edifici scolastici delle scuole di secondo grado di competenza provinciale?

3) Quali effetti avranno sulle funzioni – si pensi sempre all’edilizia scolastica – nella nuova configurazione territoriale dei liberi consorzi che, secondo quanto annunciato, potranno avere anche un limitata estensione e 150.000 abitanti?

4) Come saranno gestiti i bilanci delle attuali province, i mutui contratti, le partecipazioni societarie etc.?

5) Come sarà gestito il personale delle attuali nove Province e di tutte le società partecipate?

6) Come è stato quantificato l’annunciato risparmio di 100 milioni di Euro?

7) Quali saranno gli effetti sul patto di stabilità, posto che la Regione – malgrado il regime di autonomia speciale – non ha alcuna competenza in materia?

8) In che rapporto si porranno i nuovi liberi consorzi con l’organizzazione periferica dello stato – Prefetture, Questure, Comandi Provinciali delle Forze dell’Ordine – oggi organizzati su base provinciale?

9) Come si concilia l’istituzione delle città metropolitane con l’art. 15 dello Statuto, quali funzioni avranno, come si porranno rispetto ai Comuni, saranno enti diversi come previsto dall’art. 18 del D. L. 95/2012 per il resto d’Italia?

Aiutati da una campagna mediatica ahimè senza precedenti, le Province sono diventate un simbolo, una bandiera da utilizzare per dichiararsi riformatori.

Abbiamo già avuto modo di sottolineare  come bisognerebbe innanzitutto delimitare gli spazi d’azione della Pubblica Amministrazione, semplificare e disboscare tutti quegli ambiti di intervento nei quali non ha senso né utilità l’intervento pubblico come oggi esistente, che può rappresentare soltanto un appesantimento di procedure e costi senza benefici.

Soltanto dopo potrà essere individuato l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, individuando con chiarezza ed univocità chi fa cosa, per chiarezza, semplificazione ed individuazione certa delle responsabilità.

Accade invece che il tema dell’abolizione è diventato l’emblema – come afferma il prof. Guido Clemente di san Luca – “di un diffuso ‘qualunquismo’, spiegabile (ma non giustificabile) con l’interesse a conservare soprattutto la credibilità degli esponenti politici agli occhi della opinione pubblica (alla cui informazione corretta, del resto, certo non contribuisce la stampa d’inchiesta, sebbene la funzione di questa sia indispensabile, e quindi meriti rispetto), e, per un altro, di una scarsissima conoscenza dei problemi sottesi alla richiesta di abolizione, sia sotto il profilo giuridico, sia sul piano sostanziale”.

Occorre prendere piena consapevolezza che l’onda demagogica, che sembra travolgere tutto, spinge irrazionalmente nel senso – sbagliato! – di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Se si vuole evitare questa deriva, assai rischiosa per la libertà, e fermare quell’onda, c’è soltanto una strada: riscoprire i comportamenti virtuosi (individuali e collettivi), da parte della società civile, dei partiti politici che ne sono la principale forma organizzativa, e quindi, per conseguenza, dei suoi rappresentanti eletti per servire la comunità nelle istituzioni.

 

Carlo Rapicavoli

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