La Corte ha infatti considerato incostituzionale l’articolo 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive modificazioni.
Secondo la Corte, le disposizioni contenute nell’articolo 4 impugnato violano il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 della Costituzione.
Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.
Tale vincolo è, tuttavia, necessariamente delimitato, in ragione del suo carattere puramente negativo, posto che il legislatore ordinario, «pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata» (sentenza n. 33 del 1993; vedi anche sentenza n. 32 del 1993).
In applicazione dei predetti principi, la Corte ha rilevato che la normativa all’esame costituisce ripristino della normativa abrogata, considerato che essa introduce una nuova disciplina della materia, «senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina normativa preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti» (sentenza n. 68 del 1978), in palese contrasto, quindi, con l’intento perseguito mediante il referendum abrogativo.
Né può ritenersi – conclude la Corte – che sussistano le condizioni tali da giustificare il superamento del predetto divieto di ripristino, tenuto conto del brevissimo lasso di tempo intercorso fra la pubblicazione dell’esito della consultazione referendaria e l’adozione della nuova normativa (23 giorni), ora oggetto di giudizio, nel quale peraltro non si è verificato nessun mutamento idoneo a legittimare la reintroduzione della disciplina abrogata.
Viene così meno quasi completamente la normativa nazionale che disciplina l’affidamento dei servizi pubblici locali.
La sentenza della Corte blocca infatti anche tutte le modifiche successive, comprese quelle recentemente introdotte dal Governo Monti.
La disciplina dei servizi pubblici locali, nell’ultimo anno ha subito numerosi interventi di riforma.
A seguito del referendum del 13 giugno 2011 è stata sancita l’abrogazione dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’articolo 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall’articolo 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee» convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale.
L’effetto abrogativo si è realizzato con decorrenza dal 21 luglio 2011, a seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011 n. 113.
Come già rilevato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 12-26 gennaio 2011 (con la quale era stata dichiarata ammissibile la richiesta di referendum popolare), dall’abrogazione dell’art. 23-bis del D.L. 112/2008 non avrebbe potuto conseguire alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.
Pertanto, dal 21 luglio 2011 è risultata eliminata l’intera disciplina nazionale in materia di gestione dei servizi pubblici locali, che risulta regolamentata dalle disposizioni di matrice comunitaria.
L’abrogazione dell’art. 23-bis ha determinato altresì l’abrogazione del Regolamento attuativo approvato, in attuazione della delega contenuta nell’art. 23 bis, comma 10, dal Consiglio dei Ministri pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 239 del 12 ottobre 2010 (Decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010 n. 168 in vigore dal 27 ottobre 2010).
L’art. 4 del D. L. 138/2011, convertito in Legge 138/2011“Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell’unione europea”, ha colmato il vuoto normativo ed ha così ripristinato nel nostro ordinamento nazionale una disciplina organica in materia.
La legge 12 novembre 2011 n. 183, c.d. legge di stabilità 2012, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 265 del 14 novembre 2011, all’articolo 9 comma 2, ha modificato ulteriormente l’articolo 4 del dl 138/2011 relativo all’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
L’art. 25 della Legge 24 marzo 2012 n. 27, di conversione del Decreto Legge 24 gennaio 2012 n. 1 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” è intervenuto nuovamente sulle previsioni dell’art. 4, con norme particolarmente incisive.
L’art. 53 del D. L. 83/2012 “Misure urgenti per la crescita del Paese” è infine intervenuto ancora una volta sulla normativa vigente in materia di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali integrando e modificando quanto da ultimo previsto dall’art. 25 della Legge 27/2012.
La norma abrogata dal referendum si caratterizzava per il fatto che dettava una normativa generale di settore, inerente a quasi tutti i servizi pubblici locali, volta a restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui puntuale regolamentazione veniva, peraltro, demandata ad un regolamento governativo, adottato con il decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010 n. 168.
Con la richiamata consultazione referendaria detta normativa veniva abrogata e si realizzava, pertanto, l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza n. 24 del 2011) e di consentire, conseguentemente, l’applicazione diretta della normativa comunitaria conferente.
A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale – rileva la Corte – nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010.
Essa, infatti, da un lato, rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi, in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» (comma 1), analogamente a quanto disposto dall’art. 23-bis (comma 3) del d.l. n. 112 del 2008, ma la àncora anche al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti.
Tale effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico, alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante.
Alla luce delle richiamate indicazioni – nonostante l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova disciplina del servizio idrico integrato – risulta evidente l’analogia, talora la coincidenza, della disciplina contenuta nell’art. 4 rispetto a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e l’identità della ratio ispiratrice.
Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuano, infatti, la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso escludere.
Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava «pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica» (sentenza n. 24 del 2011) ai quali era rivolto l’art. 23-bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011.
Si torna dunque alla situazione normativa determinatasi un anno fa dopo il referendum.
Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale consegue l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica.
Va rilevato che la sentenza n. 199/2012 della Corte costituzionale produce effetti sulla disciplina generale del sistema e sui suoi provvedimenti attuativi, ma non incide numerose altre disposizioni previgenti o nel frattempo inserite nel quadro di regolazione dei servizi.
Resta in vigore l’articolo 3-bis della legge 148/2011 (introdotto dall’articolo 25 della legge 27/2012), con le disposizioni inerenti la ridefinizione degli ambiti territoriali ottimali, l’adozione degli strumenti di tutela occupazionale in caso di gara per l’affidamento di un servizio, la premialità per gli enti locali in caso di dismissioni, nonché le norme inerenti i vincoli per le società in house.
Resta pertanto la previsione secondo cui l’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali deve essere attuato in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.
La dimensione degli ambiti o bacini territoriali ottimali di norma deve essere non inferiore almeno a quella del territorio provinciale.
Le regioni possono individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e in base a principi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio, anche su proposta dei comuni che doveva essere presentata entro il 31 maggio 2012 previa lettera di adesione dei sindaci interessati o delibera di un organismo associato e già costituito ai sensi dell’articolo 30 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
E’ fatta salva l’organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti o, infine, delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini territoriali di dimensione non inferiore a quella del territorio provinciale.
Si tratta di un principio generale dell’ordinamento nazionale cui le Regioni avrebbero dovuto conformarsi entro il termine del 30 giugno 2012.
Le Regioni dovranno, entro il medesimo termine, avrebbero dovuto istituire o designare gli enti di governo degli ambiti.
Decorso inutilmente detto termine, il Consiglio dei Ministri può esercitare i poteri sostitutivi.
A decorrere dal 2013, l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi ai sensi dell’articolo 20, comma 3, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
I finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura a evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa.
L’intervento della Consulta non tocca nemmeno alcune norme contenute nell’articolo 25 della legge 27/2012, tra cui rileva in particolare il comma 4, che riconfigura il ciclo integrato dei rifiuti e lascia la possibilità di riportare o meno nello stesso le attività di smaltimento.
In tale disposizione viene specificato che nell’affidamento del servizio la realizzazione degli impianti – prima contenuto obbligatorio dell’affidamento – diventa solo eventuale.
Il contenuto obbligatorio del servizio da affidare concerne la raccolta, la raccolta differenziata, la commercializzazione e l’avvio a smaltimento e recupero dei rifiuti.
Nel caso l’affidamento sia comprensivo anche dell’attività di realizzazione e/o gestione degli impianti, allora dovrà comprendere lo smaltimento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti all’interno dell’ambito territoriale ottimale che deve avere dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del territorio provinciale e tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.
Nel caso infine in cui gli impianti siano di titolarità di soggetti diversi dagli enti locali di riferimento, all’affidatario del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono essere garantiti l’accesso agli impianti a tariffe regolate e predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e capacità necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento indicate nel Piano d’ambito.
Permangono nel quadro di riferimento per i servizi pubblici locali con rilevanza economica anche le disposizioni dell’articolo 113 del decreto legislativo 267/2000, come ad esempio quelle a tutela della proprietà pubblica degli impianti o la norma sulla necessità del contratto di servizio per la regolamentazione dei rapporti tra ente affidante e gestore.
Nessuna novità è rilevabile nemmeno per le discipline di settore (gestione farmacie, distribuzione energia elettrica, trasporto ferroviario regionale), tra cui la regolamentazione delle gare per il servizio di distribuzione del gas naturale.
La sentenza, infine, non incide sulle disposizioni inerenti le società partecipate, come le norme sulle dismissioni da parte dei Comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti, le previsioni relative al divieto di ripiano delle perdite o quelle relative alla necessaria coerenza con le finalità istituzionali degli enti soci.
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