La matrice comune dell’abuso del diritto e dello sviamento di potere

Nel volume L’abuso del diritto (il Mulino, Bologna, 1998), Pietro Rescigno si sofferma ad analizzare l’intima contraddizione lessicale delle parole che compongono la formula abuso del diritto.

Diritto vuol dire libertà garantita all’individuo, o a un gruppo privato, da una norma giuridica: vuol dire potere di volontà e di azione che la norma concede al soggetto, o al gruppo, nei confronti di uno, o di più, o di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento.

Quando si parla di abuso, di possibilità di abuso del diritto, si viene a dire che l’esercizio di questa libertà garantita dalla norma, del potere accordato dalla legge, può dar luogo a responsabilità: onde un atto lecito – l’esercizio del diritto – diviene fonte di responsabilità.

Così, sono state oggetto di approfondimento alcune vicende in cui la dottrina o la giurisprudenza hanno ritenuto che un soggetto, pur esercitando un proprio diritto espressamente riconosciuto dalla legge o da un contratto, non stesse in realtà perseguendo un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, ed anzi realizzasse un obbiettivo, o comunque un effetto, ad esso contrario.

Si pensi al caso in cui un creditore che fraziona la sua pretesa in una pluralità di azioni giudiziarie distinte tanto da costringere ingiustificatamente il debitore a subire una pluralità di azione giudiziarie; oppure al titolare del diritto di proprietà di un edificio che non agisce a difesa del proprio diritto per rimuovere una situazione dannosa anche nei confronti di altri; o ancora ad una banca che, pur ricorrendo una giusta causa di recesso tipizzata dalle parti in un contratto di apertura di credito, recede con modalità del tutto impreviste ed arbitrarie rispetto ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto.

In altre parole, le vicende sopra descritte configurano ipotesi in cui l’attribuzione di un certo diritto, effettuata in via generale ed astratta dall’ordinamento, finisce per disattendere nel caso concreto le finalità che la giustificano, o comunque finisce con il determinare una situazione che l’ordinamento non dovrebbe tollerare (in considerazione di qualche criterio di valutazione: etico, politico, economico, ideologico).

Si tratta a ben vedere di situazioni limite che capitano di frequente nel diritto vivente e che conducono a sottoporre l’ordinamento giuridico ad un costante riesame delle sue radici e dei suoi principi.

Il problema dell’abuso del diritto può essere accomunato a quello dello sviamento di potere.

È noto che l’atto amministrativo ha una sua specifica causa prevista dal legislatore che non può essere derogata dalla pubblica amministrazione nel suo agire, pur nei suoi margini di discrezionalità.

Quando l’atto non rispetta il vincolo rappresentato dalla sua causa tipica si realizza l’eccesso di potere.

Una delle figure tipiche dell’eccesso di potere è lo sviamento di potere che si verifica quando l’autorità amministrativa usa il potere attribuitole dalla legge per raggiungere uno scopo diverso, deviando, per così dire, dai binari prestabiliti dalla legge.

Si pensi, per esempio, al caso in cui l’amministrazione adotta un atto di autotutela in modo che i suoi effetti vadano ad incidere su una controversia già instaurata dinnanzi al giudice amministrativo, determinando la rimozione dell’atto originariamente impugnato ma soprattutto al fine di impedire al giudice l’esame dei motivi di ricorso i quali comportano un accoglimento maggiormente favorevole per il ricorrente.

Il vizio di sviamento comporta per conseguenza la necessità di disvelare lo scopo dissimulato dall’azione amministrativa al fine di dimostrare l’illegittima finalità perseguita in concreto dall’organo amministrativo. In questo caso è evidente che lo smascheramento dello sviamento, che presuppone l’esercizio di una potestà discrezionale e la cui manifestazione proprio in quanto non coincide con la violazione estrinseca di un dettato normativo evidenziabile tramite un sillogismo giuridico, avviene non ex se bensì attraverso un’operazione di interpretazione in via di deduzione logica (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 aprile 1992, n. 256).

In entrambi i casi, dell’abuso del diritto e dello sviamento di potere, il lavoro dell’interprete non può che muovere dall’esame dei motivi sottesi dell’azione privata ovvero della motivazione del provvedimento amministrativo, e non può che svolgersi attraverso la verifica della reale portata degli atti e comportamenti posti in essere, al fine di determinare un giudizio di coerenza tra diritto/potere esercitato e risultato concretamente perseguito.

In questa prospettiva assume particolare significato e valore l’attività dell’interprete/operatore del diritto che è tenuto costantemente a rintracciare nell’uso della libertà e del potere i limiti contenuti nel più ampio ordinamento giuridico, “ma il limite e la misura sembrano vaghi e sfuggenti”.

Stefano Bertuzzi

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