Molti affermavano con forza: “non è mica il 1929!”, ed io spesso ribattevo: “infatti è il 2008”.
Mi rendevo conto istintivamente e nonostante la mia poca esperienza che il fallimento di una grande banca americana, resistita anche al ‘29, non poteva rappresentare un accidente o un evento di piccola portata.
Eravamo appena entrati insomma nella più grande crisi economica della storia recente, superiore per danni al tessuto produttivo a quella stessa del 1929 e in parte ancora socialmente meno drammatica grazie al pregresso accumulo di ricchezze avvenuto in Occidente nel secondo dopoguerra.
La storia economica degli ultimi 300 anni, quelli del Capitalismo, è fatta di grandi espansioni e dure recessioni spesso connesse al mutamento del settore trainante dell’economia.
L’unificazione tedesca del 1870 ha consolidato sul continente europeo il passaggio, già avvento in Inghilterra, dal tessile all’industria pesante (carbone e acciaio) inaugurando quel periodo di sviluppo senza eguali chiamato “Belle Epoque”, una “prima globalizzazione” finita nella tragedia della Grande Guerra a sua volta genitrice della Grande Crisi.
Nel primo dopoguerra, infatti, la “prima globalizzazione”, molto più vasta dell’attuale, aveva già portato, soprattutto negli Usa, a quella speculazione finanziaria che avrebbe travolto l’intero mondo sviluppato di allora. A questi problemi si rispose con le ricette keynesiane ed una maggiore presenza dello Stato nell’economia. Un ritorno ad assetti di economia nazionale considerati angusti ma che diedero una boccata d’ossigeno a tutta l’economia mondiale.
Dopo la Seconda Guerra mondiale con la vittoria degli Usa, gli accordi di Bretton Woods hanno tracciato una linea di sempre maggiore “liberalizzazione” economica che in Europa ha coinciso con una progressiva integrazione economica attraverso la creazione della CECA e della CEE.
Tutto questo, in un periodo di ricostruzione postbellica e di sostegno americano a causa della Guerra Fredda, ha condotto l’Europa ad un vero e proprio miracolo economico con livelli di reddito pro capite mai avuti in un continente con sempre forti disparità sociali.
Il benessere diffuso, anche grazie all’opera redistributiva dello stato sociale, è poi sempre più disceso già alla vigilia della crisi petrolifera del 1973, la più grave dal 1929, con un aumento a dismisura del peso dello Stato.
La crescita e la prosperità economica sono le parole cruciali degli anni Ottanta coincidenti con la “rivoluzione liberale” della signora Thatcher e di Reagan che con la famosa “deregulation” gettano le basi per la futura globalizzazione. L’eliminazione di regole e delle rigidità tra Stati nonché lo smantellamento del Welfare e del controllo statale su ampi e strategici settori economici unitamente alla rivoluzione tecnologica informatica avrebbero reso pian piano obsoleti i confini entro cui si svolgevano gran parte dei commerci “delocalizzando” non solo merci, lavoro e persone ma anche menti.
Infatti, dopo la fine della Guerra Fredda, negli anni Novanta si assiste al sorpasso dell’economia sulla politica, come ad esempio in Italia dove la crisi politica del 1992 -93 porta ai massimi vertici statali esponenti dell’economia pubblica e privata come Ciampi, Berlusconi e Prodi.
Il mondo reso sempre più piccolo e più competitivo, con un mercato al tempo stesso più esiguo e complesso nonché vasto nelle opportunità, ha preteso la progressiva unificazione delle diverse aree continentali tra le quali quella europea con la formazione dell’unione economica e monetaria simboleggiata dall’introduzione dell’euro nel 2002.
Del resto questo movimento indiscriminato di merci e capitali su cui si basa la globalizzazione non sembra però rendere pienamente possibile quello delle persone per il fatto stesso che esse non sono delle cose ed hanno radici ognuno nel loro paese. La globalizzazione non tiene conto del “Locus”, delle tradizioni, della vita degli individui, della tendenziale e sostanziale stanzialità delle persone e dell’impossibilità di spostare i luoghi reali. Il dominio del mondo virtuale, ossia dell’apparenza, sparge virus come il capitalismo finanziario che porta a malattie come la crisi, generanti più ricchezza reale per chi già ne ha e più ricchezza virtuale, cioè quindi povertà, per chi non ne ha.
Non so se gli Stati nazionali siano o meno obsoleti, anche perché in fondo per funzionare l’Unione Europea doveva essere una specie di Stato “nazionale” multiculturale, ma sicuramente la mancanza di regole per il capitalismo globalizzato, la disparità nelle condizioni, l’emergere di nuove potenze che hanno mantenuto tutte le barriere o che comunque hanno prezzi concorrenziali viste le condizioni quasi sempre disumane di lavoro, sembrano aver annullato gli strumenti un tempo in mano ai governi.
La delocalizzazione delle aziende produttive sta impoverendo le conoscenze e le abilità delle nostre nazioni occidentali, soprattutto europee meridionali, a vantaggio di quelle più forti economicamente e storicamente come Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania nonché delle emergenti Cina, India, Russia e Brasile. Il passaggio in massa di grandi aziende nazionali sotto il controllo di vicini più potenti finanziariamente si profila come un nuovo colonialismo che ha tutte le caratteristiche di quello classico svelando che l’arcano della globalizzazione in realtà si nasconde nelle brame mai sopite delle vecchie nazioni coloniali a cui si aggiungono le nuove.
Lo spostamento delle produzioni annulla il tessuto produttivo e sociale trasformando nazioni un tempo rigogliose in aridi deserti con le popolazioni che, come gli animali che vivono nelle lande sabbiose, sono potenzialmente inclini a qualsiasi tipo di scontro sociale, etnico, religioso e culturale; mentre in quelle nazioni dove le produzioni estere si insediano spesso sfruttano le risorse umane del posto senza lasciare particolari forme di arricchimento economico, umano e sociale.
L’epocale crisi di valori delle società occidentali viene accelerata dalla liquidità “internettiana” del capitalismo finanziario, che condiziona gli Stati e divide le nazioni, e dal moderno rapace capitalismo produttivo che azzera i popoli ponendoli sotto il giogo feudale delle nuove signorie multinazionali.
Se la modernità era stata caratterizzata dall’emergere dello Stato in tutte le sue declinazioni, è certamente l’affermarsi del cosmopolitismo della società a produrre l’attuale dogma globalizzatore che senza speranza sembra tutto travolgere anche le conquiste raggiunte a caro prezzo come la democrazia. Se nel XX secolo tutte le nazioni intenzionate ad avere un ruolo economico importante hanno dovuto, volenti o nolenti, adottare un sistema democratico, avendo la potenza vincitrice occidentale, gli Stari Uniti, quel tipo di istituzioni, forse nel XXI secolo per sostenere questo tipo di economia globale dovremo adeguarci a sistemi politici autoritari come quello cinese.
In realtà sarebbe opportuno allentare il passo di questa economia che sta fagocitando tutto ciò che è umano e ridare agli Stati la possibilità di provvedere alle proprie nazioni senza innaturali e nocive unioni con altri diversi Stati, espediente questo al servizio dell’economia globalizzata che funzionerebbe soltanto se i popoli dimenticassero le loro origini, la loro cultura, le proprie peculiarità, in definitiva la propria patria.
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