Il legislatore, infatti, ha pensato la pena con una duplice funzione general preventiva e special preventiva. Essa doveva dunque fungere da deterrente sia nei confronti della comunità di cittadini nel loro complesso, sia nei confronti del singolo reo e nel contempo impedire la realizzazione di altri reati, tutelare l’incolumità degli individui . Tuttavia, tali finalità non furono ritenute sufficienti. Che senso avrebbe avuto limitare la libertà di un individuo, sacrosanta in tutti gli ordinamenti democratici, per poi restituirlo alla società tale e quale a prima ? La pena, si sosteneva, doveva essere anche rieducativa per il criminale, per consentire un suo adeguato inserimento nella società al termine del provvedimento. Un vantaggio sia per il singolo reo, che avrebbe imparato dagli errori del passato, sia per la società che si sarebbe sentita più protetta. Propositi questi ottimi e, a mio parere, un vanto per il nostro sistema giuridico.
Le carceri italiane,oggi come oggi dovrebbero pertanto insegnare ai detenuti a vivere nel mondo civile, rispettare le regole che ne sono alla base. Tale teoria stride non poco con il recente giudizio della Corte di Strasburgo a cui si sono rivolti proprio alcuni detenuti per contestare il trattamento cui erano sottoposti negli istituti di Piacenza e Busto Arsizio.
La L. 375/1975 regola anche le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari e all’art. 6 precisa che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, aerati, illuminati con luce naturale ed artificiale in modo da consentire il lavoro e la lettura”. Dunque sì, il nostro ordinamento ha pensato tali strutture anche come luoghi di ri-educazione ed ha imposto che queste siano attrezzate per consentire a chi ha commesso errori di cambiare.
Dalla sentenza della Corte di Strasburgo relativa alla causa Torreggiani e altri c. Italia emerge invece un altro quadro. Ogni detenuto ricorrente, infatti, dispone di uno spazio pari a 3 m² all’interno della propria cella. Difficile pensare che quanto indicato nella norma appena citata sia possibile in una simile situazione di ristrettezza. Casi simili a quelli oggetto della pronuncia sono molteplici e se alla base vi è un problema di sovraffollamento, oltre alla carenza di risorse economiche per intervenire materialmente sulle strutture, ciò non toglie che il trattamento loro riservato sia esattamente opposto alla volontà di rieducare e risocializzare . L’affollamento in uno spazio ristretto, chiuso comporta inevitabilmente carenza di condizioni igieniche oltre a tensione crescente tra gli individui ed assenza totale di privacy, diritti fondamentali garantiti dalle più importanti Convenzioni internazionali, ivi inclusa la Costituzione italiana.
Lo sostiene anche il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti che nel secondo rapporto generale (peraltro citato dalla stessa sentenza della Corte di Strasburgo) per il quale una situazione di questo genere potrebbe risultare nociva per i detenuti ed abbassa la qualità della vita nell’istituto sottolineando poi quanto sia importante in tali strutture “un programma soddisfacente di attività” per il benessere dei detenuti.
Il “Decreto Svuota carceri” , D.L. 211/2011 convertito in L. 9/2012 unitamente alla L.199/2010, consentendo la detenzione domiciliare, può essere un provvedimento utile nel breve termine, meno, a mio parere, nel lungo periodo, viene a mancare lo scopo base della pena così come concepito dal legislatore.
Certo non è facile pensare ad una soluzione ma è necessario porre rimedio a tale prassi.
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