Uno degli aspetti più qualificanti del discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri dinnanzi al Parlamento è quello della riforma delle istituzioni.
I temi posti, alcuni condivisibili altri molto meno, sono di estrema attualità per modernizzare le nostre Istituzioni.
Va ricordato, peraltro, che molte questioni poste – fine del bicameralismo perfetto, aumento del potere del Primo Ministro, clausole di interesse nazionale nelle materie di competenza regionale – erano già contenute nella riforma costituzionale del 2005, bocciata a larga maggioranza dai cittadini (61,32% dei votanti) nel referendum del 25 e 26 giugno 2006 cui prese parte il 52,30% degli elettori aventi diritto.
Ma ciò che colpisce maggiormente sono le modalità con le quali si intende raggiungere l’obiettivo della riforma costituzionale.
Il Presidente del Consiglio ha parlato di una “Convenzione” non meglio definita.
Tale istituto fa venire in mente la “Convenzione nazionale” istituita durante la rivoluzione francese dopo la sospensione del re dalle sue funzioni con il compito di elaborare una nuova costituzione il cui esito finale è ben noto.
Stupisce maggiormente la motivazione a sostegno della soluzione proposta, soprattutto se collegata alla reiterata dichiarazione di centralità del Parlamento contenuta nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.
Ha affermato il Presidente Letta: “Al fine di sottrarre la discussione sulla riforma della Carta fondamentale alle fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente, sarebbe bene che il Parlamento adottasse le sue decisioni sulla base delle proposte formulate da una Convenzione, aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari e che parta dai risultati della attività parlamentare della scorsa legislatura e dalle conclusioni del Comitato di saggi istituito dal Presidente della Repubblica. La Convenzione deve poter avviare subito i propri lavori sulla base degli atti di indirizzo del Parlamento, in attesa che le procedure per un provvedimento Costituzionale possano compiersi. Dal momento che questa volta l’unico sbocco possibile per questo tema è il successo nell’approvazione delle riforme che il paese aspetta da troppo tempo, fra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro”.
Dunque si afferma che:
1) E’ opportuno sottrarre le riforme costituzionali al dibattito parlamentare viziato dalle “fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente”;
2) La proposta di riforma va elaborata da una “Convenzione” composta anche da non parlamentari;
3) La convenzione deve ispirarsi all’attività della scorsa legislatura e alle conclusioni dei saggi nominati dal Presidente della Repubblica.
Da queste osservazioni ricaviamo un messaggio chiaro: il riconoscimento da parte del Presidente del Consiglio che il Parlamento, per le “fisiologiche contrapposizioni”, non è in grado da solo a discutere le riforme costituzionali, compito primario di ogni assemblea elettiva.
Analoga conclusione cui era pervenuto il Presidente della Repubblica allorché ha affidato a dieci saggi il compito di risolvere in due settimane quello che vari governi non hanno fatto in anni.
Se poi si considera che tali esperti sono dei non parlamentari – sia i saggi sia i componenti della convenzione come espressamente dichiarato – viene da chiedersi se vale ancora la pena votare, se si può chiedere ancora fiducia nelle Istituzioni democratiche.
Lo stesso Presidente del Consiglio ha dichiarato: “La moralità della politica è quella di prendere le decisioni che i cittadini si attendono, e di rispettare gli impegni presi di fronte al paese e alle istituzioni”.
Ecco appunto: sono gli eletti che devono assumere decisioni!
“L’obiettivo complessivo – continua Letta – è quello di una riforma che riavvicini i cittadini alle istituzioni”; eppure si propone quale riforma salvifica l’abolizione di un livello di governo vicino ai cittadini, ignorando che oggi sono proprio e soltanto le autonomie locali vicine ai cittadini.
“Semplificazione e sussidiarietà devono guidarci al fine di promuovere l’efficienza di tutti i livelli amministrativi e di ridurre i costi di funzionamento dello Stato”: ecco, condivisibile pienamente il principio, di