“Italicum”: qualche luce interessante, qualche ombra pesante

Premessa d’obbligo: non è mai troppo salutare commentare delle proposte normative senza avere in mano il testo dell’articolato. Limitarsi alle due paginette allegate da Matteo Renzi alla sua relazione alla direzione del Pd di ieri per dire qualcosa sulla proposta di legge elettorale (già ribattezzata Italicum dallo stesso Renzi) scaturita dai contatti con varie forze politiche e dall’accordo con Silvio Berlusconi e Forza Italia non è l’ideale; per ora però non c’è altro, per cui ci si deve accontentare.

Detto questo, si può certamente dire che è rapidamente invecchiata l’etichetta di “sistema simil-spagnolo” che da più parti era stata appiccicata al progetto mentre era in via di sistemazione: del modello iberico, infatti, ha ormai ben poco, per i correttivi che sono stati innestati.

Dando uno sguardo al meccanismo previsto per la Camera, resterebbe un sistema a ripartizione proporzionale, rimanendo anche la possibilità per le singole liste di coalizzarsi. La prima novità significativa riguarda il premio di maggioranza: la Corte costituzionale aveva censurato l’assenza di una soglia per far scattare il premio, per cui aveva demolito l’intero meccanismo premiale; stavolta, il premio consiste in un “pacchetto” pari al 18% dei seggi, la cui assegnazione però non è automatica, ma è subordinata al raggiungimento di almeno il 35% dei voti sul territorio nazionale.

La proposta prevedrebbe due ipotesi: qualora la soglia venisse raggiunta e superata, la lista o la coalizione più votata riceverebbe il premio, ma non necessariamente del 18%: nessun partecipante alle elezioni (anche come coalizione) potrebbe accumulare più del 55% dei seggi, per cui se la percentuale dei voti superasse il 37%, il premio verrebbe ridotto progressivamente fino a dotare il partito o la coalizione del 55% dei posti alla Camera. Se invece nessuna lista o raggruppamento raggiungesse il 35%, si ricorrerebbe – per la prima volta nella storia della Repubblica – a un secondo turno, in cui si affronterebbero le due liste o coalizioni più votate (senza possibilità di nuovi apparentamenti “ufficiali”): in quel caso, al vincitore toccherebbe direttamente il 53% dei seggi, inteso come somma del 35+18%, dunque come “risultato minimo garantito”. Nell’uno e nell’altro caso, i seggi non spettanti alla maggioranza sarebbero divisi in proporzione tra le altre forze ammesse.

Un altro elemento di novità importante, infatti, sembra costituito dalle soglie di sbarramento e dal loro rapporto con le coalizioni. Verrebbe mantenuto il regime di favore (quello del Porcellum) per chi si coalizza, prevedendo una soglia per l’aggregazione e una per la singola lista, più vantaggiosa rispetto a quella stabilita per chi corresse da solo, ma l’asticella verrebbe alzata di molto per tutti.

Per accedere ai seggi, le coalizioni invece che il 10% dovrebbero raggiungere il 12%, mentre le singole forze coalizzate avrebbero bisogno del 5%, quando ora basta il 2% (e non risulta che sia stato mantenuto il ripescaggio per il “migliore perdente”, nella logica di voler evitare i «ricatti dei partitini»). Il ritocco più sensibile, però, riguarderebbe la clausola valida per le liste non coalizzate, che passerebbe d’improvviso dal 4% all’8%, rendendo di fatto pressoché impossibile – se non, in questo momento, al MoVimento 5 Stelle, per lo meno coi numeri delle politiche – la rappresentanza delle forze politiche che scegliessero di restare fuori dai poli.

Se la determinazione del premio avverrebbe a livello nazionale, i seggi sarebbero poi distribuiti su scala locale attraverso un elevato numero di circoscrizioni (nei giorni scorsi si era parlato di oltre 100 ripartizioni territoriali), che nel disegno proposto da Renzi dovrebbero assegnare di non più di 5 seggi ciascuna: qualcosa di molto diverso rispetto alle megacircoscrizioni del Porcellum che possono distribuire oltre 40 poltrone.

Le liste, tuttavia (o forse proprio per la loro “riduzione”), resterebbero bloccate, ma stavolta i nomi dei candidati sarebbero stampati sulla scheda, in ordine di presentazione. Nella proposta si fa anche cenno a «criteri che garantiscano il riequilibrio di genere»: non si precisa nulla, ma è probabile che si inserisca l’obbligo di garantire determinate quote e, magari, di alternare uomini e donne nelle liste.

Non è per nulla chiaro, invece, cosa intenda la “bozza Italicum” quando si riferisce a «criteri per evitare il fenomeno delle c.d. “liste civetta”». Secondo YouTrend, il riferimento andrebbe alle liste coalizzate “sottosoglia”, i cui voti non dovrebbero essere conteggiati ai fini del premio di maggioranza. La tesi, però, lascia perplessi. Posto che è problematica in sé l’espressione usata, visto che le “liste civetta” erano i simboli utilizzati nel 2001 alla Camera dalle forze politiche maggiori per neutralizzare gli effetti dello “scorporo” previsto dal Mattarellum (eventualità che certo qui non si pone), non si capisce come si potrebbe avallare una lettura come quella accennata prima: sarebbe un’ulteriore distorsione del consenso, che certamente indurrebbe gli elettori a un “voto strategico” (o, come è caro ai politici italiani, un “voto utile”) a favore dei partiti maggiori, ma che sarebbe tutt’altro che rispettosa della volontà dei cittadini. Sia perché le liste sottosoglia sono già “punite” con l’esclusione dalla Camera (mentre in questo modo sarebbero condannate all’irrilevanza totale), sia perché i cittadini sarebbero convinti – votandole – di contribuire al successo della coalizione, mentre in questa maniera il loro voto finirebbe del tutto nel nulla, potendo essere riscattato solo dall’eventuale turno di ballottaggio. È altrettanto difficile, però, immaginare altri significati plausibili per l’espressione “liste civetta”: nel linguaggio comune viene usata anche per riferirsi alle liste “di disturbo”, che grazie ai loro simboli somiglianti cercano di sviare voti dai partiti maggiori, ma parlarne in questa sede non avrebbe senso. Meglio dunque aspettare l’articolato, se arriverà.

Da ultimo, l’Italicum prevederebbe anche una “clausola di salvaguardia” per il Senato, che consentirebbe di regolare la sua elezione qualora non si riesca a provvedere in tempo alla sua trasformazione in “Camera delle autonomie” cui Renzi fa riferimento. Si tratterebbe, in sostanza, di replicare per Palazzo Madama il sistema delineato per Montecitorio, con in più un «metodo che assicuri l’attribuzione dei seggi anche del premio su base interamente regionale». Il criterio però, così com’è, è piuttosto fumoso, come del resto è fumoso il primo comma dell’articolo 57 della Costituzione, quando parla di Senato eletto «su base regionale». L’impressione è che si sia voluto dire qualcosa sul Senato, con la speranza però che si voti solo dopo che è intervenuta la riforma costituzionale.

Visto l’impianto della riforma elettorale suggerita da Renzi, è possibile qualche commento, a partire da quello che manca. Non si trova alcun cenno, ad esempio, alle regole per la circoscrizione Estero: il numero dei seggi che le spettano a tutt’oggi è determinato dalla Costituzione, per cui non è dato sapere se l’Italicum non si sia concentrato su questo aspetto, oppure se nel disegno di riforma costituzionale di Renzi vi sia anche l’abolizione della circoscrizione Estero (che, da vari punti di vista, non sarebbe nemmeno disprezzabile, ma di questo non si è parlato con chiarezza).

Nella bozza non si citano nemmeno norme a tutela delle minoranze linguistiche riconosciute: anche qui, non si capisce se sia una lacuna voluta (per non frammentare il quadro politico) o un punto non ancora approfondito negli accordi.
Passando alle previsioni illustrate da Renzi, si nota un premio di maggioranza consistente, che però è più rispettoso delle indicazioni della Corte e rinvenibili in Costituzione, sia perché è prevista una soglia per la sua applicazione (soglia che, a conti fatti, nessuna coalizione o forza politica avrebbe raggiunto), sia perché – qualora nessuno ottenga il 35% – la parola tornerebbe ai cittadini con il secondo turno, per cui sarebbero gli elettori stessi a determinare espressamente chi deve ottenere il 53% dei seggi. C’è il rischio concreto che al ballottaggio l’affluenza crolli e premi una parte piuttosto che altre, ma questo non può essere imputato come “difetto” alla legge. Allo stesso modo, si sceglie di non andare oltre il 55% di seggi alla lista o alla coalizione vincitrice, ritenendo (con piena ragione) che il vantaggio assicurato sia decisamente ampio.

Dubbi pesanti, invece, riguardano la determinazione delle soglie di sbarramento. Per quanto possa essere accettabile come fine la semplificazione del quadro politico e la neutralizzazione del «ricatto dei partitini», non può sfuggire un dato. È altissimo lo sbarramento dell’8% per le liste che vogliano correre da sole (così si spinge verso la formazione di coalizioni “a ogni costo”, senza la minima garanzia che queste reggano dopo il voto, come temuto dalla Cassazione). È però decisamente alto anche il 12% per la coalizione (il rassemblement di Monti sarebbe rimasto sotto la soglia) e, soprattutto, è quasi letale il 5% previsto per le forze coalizzate: lo avrebbero superato solo il Pd e il Pdl (il M5S e Scelta civica avrebbero invece superato la soglia dell’8%). Certo, applicando l’Italicum alle elezioni del 2013 i voti sarebbero stati distribuiti in modo diverso, non si potrebbero prendere per buoni i dati di un anno fa; se però lo si facesse, si scoprirebbe che il 20% dei voti dei cittadini non troverebbe alcun rappresentante in Parlamento. Difficile, molto difficile parlare di distorsione accettabile dei voti degli elettori, che a questo punto sarebbero spinti verso un orizzonte più bipartitico (o tripartitico) che bipolare: qualcosa che per gli Italiani è del tutto innaturale.

Non convince nemmeno troppo il sistema di liste bloccate immaginato per l’Italicum. Massimo Luciani aveva già fatto notare che non c’è alcuna garanzia sulla distribuzione dei seggi a livello locale, perché «l’elezione dipenderebbe non solo dalla volontà degli elettori di quella circoscrizione, ma anche da quella degli altri», dunque ci sarebbe un problema di “peso diverso” dei voti tra le varie circoscrizioni, con seri dubbi di opportunità (se non addirittura di costituzionalità) sul piano dell’eguaglianza del voto.
In più, va bene (anzi benissimo) il ritorno a uno degli elementi del Mattarellum, ossia la stampa dei nomi dei candidati sulle schede – consentito dalla brevità delle nuove liste bloccate – mentre va meno bene che non si dica quasi nulla sulla scelta della quaterna-cinquina di componenti della lista. Il rapporto con il territorio dovrebbe essere favorito dalla ridotta dimensione delle circoscrizioni (con la speranza che questo basti a evitare il fenomeno dei “paracadutati” da altri territori, per garantire loro elezioni sicure in luoghi favorevoli), ma la formazione dei mini-elenchi sembra interamente rimessa agli organi dei partiti, senza alcun obbligo di trasparenza nelle procedure “a monte” per la selezione delle candidature, ad esempio attraverso primarie circoscrizionali.

In più, nulla si dice sulle multicandidature, che la Corte stessa ha indirettamente stigmatizzato come parte di un meccanismo perverso che nel Porcellum (soprattutto nel 2006) aveva dato il peggio di sé: concedere ancora ai partiti di candidare qualcuno in più circoscrizioni, consentendogli poi di optare per una di esse e decidere chi dovrà subentrare alla Camera sarebbe una nuova menomazione della libertà del voto ex art. 48, comma 2 Cost e saremmo di nuovo di fronte a una norma incostituzionale. Da ultimo, non è dato sapere se si avrà di nuovo a che fare con la figura del capo della lista o della coalizione, una sorta di “convitato di pietra”, che esisteva ma non era indicato né sui manifesti, né tanto meno sulle schede.

Punti buoni, nell’Italicum, ci sono, ma sono molto più spinosi quelli che non convincono. Ci sarebbe poi un’ultima riflessione da fare: Renzi nel suo intervento alla direzione nazionale Pd ha detto espressamente che quella da lui delineata «non è una riforma à la carte», per cui toccare qualcosa della riforma elettorale farebbe saltare anche gli altri interventi. Da una parte c’è la consapevolezza – positiva – che le riforme in generale devono essere considerate in una visione unitaria, per cui una certa legge elettorale non può essere scollegata dal suo contesto, che in questo caso prevede anche una riforma del sistema parlamentare e delle regioni. Dall’altra, però, non si può non notare che dire «o tutto o viene meno l’accordo» è un discorso poco masticabile, tanto all’interno di un partito, quanto all’interno di un’assemblea elettiva: considerando che l’accordo è stato raggiunto sulla base di pochi contatti tra i leader o i loro proconsoli, è questo il «metodo democratico» di cui parla l’articolo 49 Cost. con riferimento alla dialettica tra (e, in teoria, anche nei) partiti?

Gabriele Maestri

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