La legge, una volta “uscita” dal Parlamento, non appartiene più alla sfera della politica ed entra nel mondo del diritto1.
Dalle coordinate esegetiche della pronuncia si può desumere anche il rapporto intercorrente tra democrazia e dittatura, che in questo frangente storico va attentamente valutato dalla coscienza collettiva.
Proprio alcuni giorni fa Noam Chomsky, uno dei maggiori filosofi viventi, in Italia per il Festival delle Scienze all’Auditorium Parco della Musica di Roma, ha detto che “le democrazie europee sono al collasso totale, indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere, perché sono decise da burocrati e dirigenti non eletti che stanno seduti a Bruxelles. Questa rotta è la distruzione delle democrazie in Europa e le conseguenze sono dittature”.
La separazione della funzione legislativa da quella giurisdizionale fa da pendant, secondo noi, alla separazione della democrazia parlamentare dalla dittatura sovrana.
La dittatura sovrana scala il potere su iniziativa di un gruppo ristretto di una popolazione : il “popolo” la subisce e la sorregge.
La democrazia arriva al potere grazie ad una parte minoritaria di popolazione : il “popolo” ne usufruisce e la sorregge.
Nella dittatura si afferma lo Stato di polizia, cioè Stato amministrativo, in cui la funzione legislativa, qualunque sia l’organo deputato ad esercitarla, sovrasta ed annulla l’autonomia della funzione giurisdizionale, esaltando l’ interpretazione autentica delle leggi.
Nella democrazia si afferma lo Stato di diritto in cui la sovranità della funzione legislativa, esercitata da un parlamento eletto, è controbilanciata dalla autonomia della funzione giurisdizionale, consentendo la interpretazione giudiziale delle norme giuridiche accanto alla interpretazione autentica.
Fatte queste brevissime osservazioni, Si riporta nei punti salienti la sentenza 314/2013 della Corte costituzionale, invitando tutti i giudici, ordinari o speciali che siano, a farne quotidiana applicazione.
CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA N. 314 DEL 17.12.2013
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, promosso dal TAR Lazio, nel procedimento vertente tra ********************** e il Ministero della giustizia ed altro.
Ritenuto in fatto
1.- Nel corso di un giudizio amministrativo [proposto da un magistrato ordinario, che ha impugnato la delibera del 7 febbraio 2013, con cui il CSM ha pubblicato le sedi vacanti ai fini della procedura di trasferimento, chiedendone l’annullamento della lettera a), in cui è stabilito il termine del decorso di un triennio di servizio nel posto ricoperto quale requisito di legittimazione al trasferimento per tutti gli aspiranti senza distinzioni] il TAR Lazio (sospeso l’atto impugnato in fase cautelare) con ordinanza del 22 marzo 2013 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3. del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 che dispone che l’art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) «si interpreta nel senso che il rispetto del termine ivi previsto è richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei magistrati ordinari». Secondo il rimettente, il censurato art. 35 si pone in contrasto con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della Costituzione, «nella parte in cui esso rende l’art. 194 del R. d. n. 12 del 1941 applicabile ai magistrati (tra cui il ricorrente) trasferiti d’ufficio a sede disagiata, ai sensi della legge n. 133 del 1998, prima dell’entrata in vigore della norma impugnata».
Premette, in fatto, il TAR che il ricorrente ha prestato servizio in una tale sede per un periodo superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del bando, e che ha perciò maturato il requisito della permanenza biennale nell’ufficio, in virtù di quanto previsto dal paragrafo V, punto 20, della circolare del CSM 8 giugno 2009, n. 12046; e ritiene che il bando impugnato (del 7 febbraio 2013), nello stabilire (alla lettera a)che «il termine di legittimazione per tutti gli aspiranti è quello triennale», escluda che il magistrato proveniente da sede disagiata possa sottrarsi a tale previsione. E che quindi [nonostante che, all’epoca della assegnazione alla sede disagiata, al ricorrente si potesse opporre, per tale profilo, esclusivamente il limite di permanenza biennale discrezionalmente introdotto dal Consiglio per i trasferimenti d’ufficio ex circolare n. 12046 del 2009] l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, come autenticamente interpretato dalla norma censurata, impone oggi di affermare che il requisito di permanenza triennale ivi indicato trovi applicazione ogni guai volta il magistrato venga trasferito, e perciò anche a chi sia stato trasferito d’ufficio. Il rimettente precisa che il dubbio di costituzionalità non riguarda affatto la scelta “a regime” del legislatore di applicare anche al magistrato in sede disagiata il limite indicato dal citato art. 194, ma la investe per la sola parte in cui tale scelta pretende di applicarsi anche a chi fosse stato assegnato d’ufficio a tale sede prima dell’entrata in vigore della norma impugnata. Da ciò, la rilevanza della questione giacché, in applicazione della norma censurata, la domanda giudiziale proposta dal ricorrente dovrebbe essere rigettata, essendo egli soggetto all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario; al contrario, la domanda dovrebbe essere accolta, qualora fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma medesima in parte qua.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente rileva che la “auto/qualificazione in termini interpretativi della legge non è priva di conseguenze normative”, essendo «noto, infatti, che un limite alla retroattività della legge è stato enucleato dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento alla tutela dell’affidamento che i consociati riponevano in un certo assetto normativo, quando il legislatore pretenda invece di alterarlo anche per il passato».
Il rimettente denuncia quindi la norma interpretativa, innanzitutto, per violazione degli artt. 3, 102 e 111, primo comma, Cost. dubitando, «in termini generali, che il legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della natura interpretativa che le viene conferita»; nonché dubitando che «la funzione legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiché essa è riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102 Cost.), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato da attribuire alle norme».
2.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo preliminarmente l’inammissibilità per irrilevanza della sollevata questione: da un lato. in ragione del fatto che il magistrato ricorrente nel giudizio a quo non ha maturato il termine biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata in vigore della normativa censurata; e, dall’altro lato, in quanto l’interpretazione fornita dalla norma censurata è considerata, da una parte della giurisprudenza amministrativa, l’unica corretta già sotto il vigore dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, tanto che la richiesta “eliminazione” della norma interpretativa sarebbe tamquam non esset.
Nel merito, l’Avvocatura deduce la manifesta infondatezza della questione con riferimento a tutti i parametri evocati, affermando in primo luogo che la norma censurata è sopravvenuta in un contesto in cui la prassi del CSMera già nel senso di affermare che il termine triennale di permanenza nel posto (sancito dall’art. 194) costituisse requisito generale per la mobilità di sede, ritenendolo applicabile ad ogni genere di trasferimento.
quale ne fosse l’origine e la causa, senza distinguere tra trasferimenti volontari ed officiosi, così assegnando alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle sue possibili letture
Considerato in diritto
1.- Il TAR del Lazio censura l’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito dall’art. 1, comma 1, legge 4 aprile 2012, n. 35.
La disposizione prevede che l’art. 194 dell’Ordinamento giudiziario «si interpreta nel senso che il rispetto del termine triennale ivi previsto è richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei magistrati ordinari».
A giudizio del rimettente, la denunciata disposizione di interpretazione autentica[nella parte in cui rende il termine triennale previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario applicabile anche ai magistrati (tra cui il ricorrente) trasferiti d’ufficio a sede disagiata prima dell’entrata in vigore della norma impugnata (ai sensi della legge 4 maggio 1998, n. 133, recante «Incentivi ai magistrati trasferiti d’ufficio a sedi disagiate ») ] si pone in contrasto:
con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della Costituzione, essendo dubbio, «in termini generali, che il legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della natura interpretativa che le viene conferita »; nonché che «la funzione legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiché essa è riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102 Cost), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato da attribuire alle norme»;
con l’art. 3 Cost., poiché se, in linea di principio, negare che il legislatore possa interpretare la legge che ha prodotto non equivale a privarlo della diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento è affidato alla discrezionalità legislativa -, tuttavia, vi sono interessi di rilievo costituzionale che non possono venire pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento «quale principio connaturato allo Stato di diritto».
2.- Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità, per irrilevanza, delle sollevate questioni, mosse dalla difesa dello Stato sul duplice assunto: a) della mancata maturazione da parte del ricorrente nel giudizio a quo del termine biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata in vigore della normativa censurata; b) della inutilità della richiesta “eliminazione” della norma censurata, la quale fornirebbe una interpretazione dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario già considerata, da una parte della giurisprudenza amministrativa, come l’unica corretta. Entrambe le eccezioni sono prive di fondamento.
Da un lato, infatti, il rimettente – chiamato ad annullare la lettera a) della delibera CSM del 7 febbraio 2013 nella parte in cui impone, quale requisito di legittimazione al trasferimento, la permanenza nel posto per un triennio, come previsto dall’art. 194 del regio decreto n. 12 del 1941, a tutti gli aspiranti, e quindi anche ai magistrati già assegnati d’ufficio a sede disagiata, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 133 del 1998 -rileva che il ricorrente (trasferito in detta sede con delibera del 6 luglio 2010 e successiva presa di servizio in data 20 settembre 2010) ha prestato servizio a tale titolo per un periodo superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del bando; e che egli ha, perciò, maturato il requisito della permanenza biennale nell’ufficio, secondo quanto previsto dal paragrafo 5, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del 2009 del Consiglio.
Dall’altro lato, la dedotta inutilità di una pronuncia caducatoria della disposizione censurata – in quanto attribuirebbe alla disposizione autenticamente interpretata l’unico significato corretto – costituisce profilo attinente al merito e non alla ammissibilità delle sollevate questioni pregiudiziali. 3.- Le quali sono, invece, inammissibili per i motivi che seguono.
3.1. 11 rimettente formula la questione (da lui ritenuta pregiudiziale rispetto alle altre) della compatibilità con la Costituzione della efficacia retroattiva della censurata norma di interpretazione. In particolare il TAR osserva che la lettera della disposizione impugnata è univoca nell’estendere il requisito della permanenza triennale a «tutti i trasferimenti», per funzioni «anche» superiori o comunque diverse da quelle ricoperte; giacché (a suo dire), se il legislatore avesse voluto occuparsi delle sole assegnazioni alle funzioni «superiori», non avrebbe avuto alcuna necessità di regolare trasferimenti di altra natura, essendo viceversa palese l’intenzione di accomunare sotto la medesima previsione normativa ogni ipotesi di destinazione del magistrato, a domanda o d’ufficio, per imporre in tutti i casi un periodo minimo di permanenza pari a tre anni.
Nel contempo, peraltro, il rimettente dà atto che, in effetti, la posizione fatta valere dal ricorrente nel giudizio a quo trova, allo stato, conforto in pronunce di altra sezione del medesimo TAR, che negano l’applicabilità della norma censurata a casi simili, in ragione del fatto che «il legislatore sarebbe intervenuto a risolvere un dubbio interpretativo nato in giurisprudenza in ordine alla applicabilità dell’art. 194 ai fini del conferimento, a domanda, delle funzioni direttive propendendo per la soluzione positiva», per cui l’intervento interpretativo non «potrebbe mutarne la natura di norma destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda, e giammai quelli disposti d’ufficio».
3.2.- Questa Corte si è ripetutamente espressa nel senso che va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993).
Ed ha chiarito che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 15 del 2012, n. 271 del 2011,n. 209 del 2010).
Ciò premesso, va rilevato che il testo originario dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, secondo cui: «Il magistrato destinato, per tramutamento o per promozione, ad una sede da lui chiesta od accettata, non può essere, di regola, trasferito in altre sedi prima di due anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute o ragioni di servizio», è stato, dapprima, sostituito dall’art. 2 della legge 16 ottobre 1991, n. 321 (Interventi straordinari per la funzionalità degli uffici giudiziari), per il quale «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta od accettata, non può essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di quattro anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. …», e, poi, modificato dall’art. 2 della legge 8 novembre 1991, n. 356(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292) con la soppressione delle parole «od accettata».
Il testo vigente del citato art. 194 è stato introdotto dall’art. 4, comma 2, della legge n. 133 del 1998 e prevede che «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non può essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia».
A fronte di tale evoluzione normativa, il rimettente stesso osserva che, fin dall’approvazione della legge n. 356 del 1991. l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario ha limitato la propria portata applicativa ai soli trasferimenti a domanda. E sottolinea che siffatto ambito di efficacia (conseguente alla limitazione della sfera di operatività della norma, rimasta applicabile ai soli trasferimenti verso una sede «chiesta» dal magistrato) non è mutato neanche a seguito dell’abrogazione dell’art. 4-bis della citata legge n. 321 del 1991 (in virtù del quale «I magistrati trasferiti d’ufficio a norma della presente legge […] non possono essere trasferiti a domanda prima di tre anni dal giorno in cui hanno assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano specifici e gravi motivi di salute») ad opera del comma 2 dell’art. 1 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito dalla legge 13 novembre 2008, n. 181. Ciò in quanto a detta abrogazione non si è accompagnata una parallela riscrittura dell’art. 194, capace di renderlo compatibile anche con la fattispecie del trasferimento d’ufficio, intendendosi come tale «ogni tramutamento della sede di servizio per il quale non sia stata proposta domanda dal magistrato, ancorché egli abbia manifestato il consenso o la disponibilità, e che determini lo spostamento in una delle sedi disagiate […]» (art. 1 della legge n. 133 del 1998, quale sostituito dall’art. 1, lettera b, del d.l. n. 143 del 2008).
3.3. – In questo contesto di norme, va rilevato che, da parte del rimettente, non risulta esperito il doveroso tentativo di sperimentare la possibilità di dare alla norma censurata un significato costituzionalmente conforme, tale da renderla compatibile con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012)2. Al riguardo occorre, in primo luogo, ribadire che le leggi interpretative «vanno definite tali in relazione al loro contenuto normativo, nel senso che la loro natura va desunta da un rapporto fra norme – e non fra disposizioni – tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario» (sentenza n. 424 del 1993). In particolare, la norma interpretativa, isolando uno dei possibili significati già presenti nella disposizione interpretata ed escludendone gli altri (che avrebbero snaturato la sua essenza), non ne modifica il testo. In secondo luogo, di conseguenza, va posto in rilievo che non risulta esplicitata né congruamente motivata (in relazione all’indicato dato letterale della norma che si auto/qualifica interpretativa) l’idoneità della stessa ad espungere la locuzione «ad una sede da lui chiesta», contenuta nella disposizione interpretata. Motivazione tanto più necessaria in quanto, in difetto di un diritto vivente in senso contrario, solo l’esplicita elisione del richiamo ai trasferimenti a domanda potrebbe connotare diversamente la portata della suddetta disposizione interpretata, in modo da cambiarne radicalmente l’ambito di operatività – estendendone l’applicazione a sedi a loro tempo assegnate d’ufficio – ed attribuirle un significato non desumibile dal suo tenore letterale.
3.4.- Pertanto, la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato rende inammissibili, sotto tutti i profili, le sollevate questioni.
1 “Infatti, l’intenzione del legislatore, cui fa riferimento l’art. 12 delle Preleggi, non è quella soggettiva della maggioranza parlamentare che redige la norma, ma è quella oggettiva ed autonoma dello Stato, staccata dalla volontà dell’organo ed inserita armonicamente in seno al più ampio ordinamento giuridico: le norme vanno, pertanto, interpretate ed applicate alla stregua dei criteri di coerenza interna all’ordinamento, di non contraddittorietà e di razionalità” (*********, La tarsu e la tia prima e dopo il D.L. n. 90/2008, in “il fisco” n. 27/2008).
2 Il giudice deve dedurre dall’ordinamento positivo nella sua sistematicità, e in primis dalla Costituzione, tutti i principi giuridici che possono esserne tratti, compresi quelli espressi direttamente dalla Corte Costituzionale nelle sue pronunce, e applicarli ai casi concreti della vita. E ciò perché lo Stato di diritto ha elaborato un complesso ed armonico sistema giuridico, alla cui stregua non è propriamente legittimata un’interpretazione anelastica, asetticamente separata dall’intero sistema, della singola norma, a differenza di quanto può avvenire nel c.d. “Stato di legge” nel quale manca la stessa nozione di ordinamento giuridico. Consegue che, nel nostro ordinamento, il giudice, ordinario o speciale che sia, non applica, di fatto, quella norma che si manifesta incompatibile col quadro generale sistematico risultante dall’ordinamento nella sua totalità ; tenendo conto il lettore che il giudice deve interpretare le leggi ordinarie applicando anche, ove occorra, direttamente la Costituzione.
Il prof. **************, in un suo pregevole lavoro (Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione Repubblicana, Bologna, 2004), osserva che già nel 1950 il ********** aveva riconosciuto che al giudice ordinario, per quanto egli fosse “incompetente a pronunciare l’illegittimità costituzionale di una legge”, non si potesse negare la competenza ad interpretare ed applicare direttamente la Costituzione se non altro in quanto gli era consentito di rigettare “come manifestamente infondata la pregiudiziale di incostituzionalità”: il giudice, nel momento stesso in cui decide di non sottoporre una disposizione di legge ordinaria al giudizio della Corte Costituzionale, viene a dare di tale disposizione una interpretazione conforme a quello che a suo giudizio è il significato della Costituzione, pur in presenza di riserva del sindacato di costituzionalità attribuita alla Corte Costituzionale. La realtà è che, come ritenuto dalla migliore dottrina, non vi è monopolio alcuno della interpretazione delle norme costituzionali a favore della Corte Costituzionale: come la Corte costituzionale non può fare a meno di interpretare le norme di legge ordinaria nel giudizio di costituzionalità, così i giudici comuni debbono poter partire dalle norme costituzionali nella interpretazione delle leggi ordinarie applicate ai casi concreti della vita. Ricorda, ancora, ******* che, in occasione del congresso nazionale dell’Associazione magistrati tenutosi a Brescia nel 1965, ***************** insistette sul potere creativo del diritto degli organi investiti della funzione giurisdizionale a tutto vantaggio dei giudici ordinari nei confronti della Corte Costituzionale. Il che non significava che i giudici dovessero astenersi dall’investire, all’occorrenza, la Corte costituzionale di questioni di costituzionalità. Raccogliendo e sviluppando, nota il prof. *******, queste indicazioni, il congresso di Brescia si chiuse con l’adozione di una mozione unitaria la quale, riconoscendo che “la Costituzione ha codificato determinate scelte politiche fondamentali, imponendole a tutti i poteri dello Stato, ivi compreso quello giudiziario”, individuava tre compiti specifici che i giudici erano chiamati ad assolvere. Applicare direttamente le norme costituzionali quando ciò fosse tecnicamente possibile in relazione ai fatti concreti controversi, rinviare all’esame della Corte le leggi che non si prestassero ad essere ricondotte in via interpretativa al dettato costituzionale, e interpretare tutte le leggi in conformità ai principi contenuti nella Costituzione, il che implicava l’obbligo derivato di interpretare le leggi anche in conformità ai principi giuridici espressi dalla Corte Costituzionale nelle sue pronunce.(*********,Le norme grimaldello, in forum di quaderni costituzionali 12.9.2008).
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento