Iniziare a ridurre il ‘cuneo fiscale’ oppure no?

Cuneo fiscale, spettro terrificante e al contempo ambito tesoro. La sua ampiezza è uno dei problemi che mina la competitività di un’impresa in Italia, la sua riduzione è l’obiettivo che più parti auspicano. Di questi tempi tutti ne parlano, rendendolo una star quasi quanto quello “spread” che negli anni di crisi economica ci ha accompagnato diventando conosciuto da tutti gli italiani. Se il “cuneo fiscale” è invocato da più parti, anche contrapposte, sarà il segno inequivocabile che esiste la percezione, negli attori economici ed in quelli politici, che è ormai necessario intervenire in questo ambito.

Ma cosa è il cuneo fiscale? Un indicatore che individua il rapporto che esiste tra tutte le imposte che gravano sul lavoro e il costo complessivo del lavoro stesso. In sostanza è la differenza fra il salario lordo (che è solo una parte del costo che l’impresa sostiene per un dipendente) e il salario ‘netto’, ovvero quello che entra in tasca al lavoratore. Una riduzione di questa differenza porterebbe, a parità di costo per l’azienda, ad un aumento dei soldi disponibili per il lavoratore e di consequenza spendibili, con tutto ciò che questo comporterebbe per l’economia (compreso un aumento delle entrate fiscali relative ai consumi).

Nella legge di stabilità che in questi giorni deve essere approvata, una riduzione del cuneo fiscale è stata oggetto di interesse da parte di tutti i soggetti politici. Il problema dell’intervento è però nell’esiguità delle risorse stanziate a questo scopo, che consentirebbero uno sgravio di circa 200 euro l’anno per i redditi inferiori ai 30.000 euro. Ben poca cosa. Addirittura esiste l’ipotesi che la riduzione del cuneo fiscale, tanto auspicata e discussa, slitti al prossimo anno, quando si dovrebbero avere fondi disponibili per attuare un intervento più incisivo. E allora attendiamo di vedere cosa accadrà in Parlamento nei prossimi giorni, considerando anche che la Commissione UE ha negato la disponibilità di circa 3 miliardi di euro che sarebbero stati invece calcolati nel bilancio in forza della “clausola di investimento”.

A coloro che affermano che quanto previsto nella legge di stabilità è troppo poco, si può facilmente ribattere che è solo quel primo passo con cui ogni corsa deve per forza di cose iniziare. Che altro fare se non considerarlo solo un piccolo, primo mattone? Nella speranza, ovviamente, che questa prima pietra sarà “fondamentale fondamenta” e non invece uno dei tanti cantieri iniziati e poi abbandonati di cui è piena l’Italia.

Perché se non si vuol vedere quanto il mercato sia cambiato, quanto la competitività delle imprese sia aumentata, non si riuscirà a dar nuova linfa all’Italia. Le imprese odierne non competono più in Italia o in Europa, competono nel mondo. Non è più possibile procrastinare uno svecchiamento delle norme che regolano la vita delle aziende, dei rapporti di questa con i propri lavoratori ed infine dei rapporti con i sindacati.

 

Emanuele Petrilli

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