Il TAR Lazio, con decisione 9 giugno 2011, n. 5151, ha dichiarato invalido il regolamento del Consiglio nazionale forense del 24 settembre 2010 che aveva introdotto, a partire dal 30 giugno 2011, le condizioni e le modalità per il riconoscimento del titolo di avvocato specialista nelle materie, massimo due, indicate nello stesso.
Il Regolamento è stato impugnato da alcuni avvocati, iscritti all’albo professionale tenuto presso l’Ordine di Roma, perché lesivo della loro professionalità, deducendone la nullità e l’annullabilità, sotto vari profili, tra i quali, e soprattutto, il difetto di attribuzione del CNF di potestà regolamentare nella materia.
Chiarito innanzitutto che la materia è riservata al legislatore statale, il Collegio ha osservato che “non è dato comprendere da quale fonte normativa il CNF abbia derivato la potestà, esercitata con l’atto impugnato, di creare ex novo una figura professionale precedentemente non contemplata dal vigente ordinamento – quella dell’avvocato specialista – che si aggiunge alle figure dell’avvocato iscritto all’albo e dell’avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori”.
Conseguentemente, accertata l’assoluta carenza di attribuzione del CNF di disciplinare la materia, il TAR ha dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 21- septies, legge 7 agosto 1990, n. 241, il regolamento sulle specializzazioni degli avvocati.
In merito a nulla sono valse le ragioni sostenute dalle parti resistenti, secondo le quali la figura dell’avvocato, anche dopo l’introduzione delle specializzazioni “rimane assolutamente unica”, potendo il professionista, dopo il superamento dell’esame di Stato, e l’iscrizione all’albo degli avvocati, “svolgere la propria attività professionale in tutti i settori dell’ordinamento indipendentemente dall’aver partecipato alla procedura prevista per il conseguimento del titolo qualificante di specialista”.
Ma allora, a cosa doveva servire l’istituzione di un registro per gli specialisti e la previsione di stringenti condizioni per iscriversi ad esso?
Beh, siccome il generalista non dovrebbe fare ciò che compete allo specialista;
il primo, così come fa il medico generico, avrebbe potuto risolvere il caso semplice, dirottando quello complicato verso un collega specializzato.
Insomma, le cose si sarebbero sistemate da sole. Così anche gli avvocati avrebbero avuto il loro sud.
Nel caso in cui si volesse escludere detta ragione, l’esigenza di speciasti si potrebbe motivare con la scarsa preparazione degli avvocati generalisti, costretti a barcamenarsi in una babele di regole e regolette.
Ed è vero, ma è anche vero che alla categoria può far difetto la capacità di argomentare, di pensare sillogisticamente e, cosa grave, di scrivere un atto.
Va aggiunto, anche per essere alla moda, che l’avvocato straparla e scrive trattati.
Piero Calamandrei, nella sua opera ”Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, non solo anticipa la condanna a morte della “bella oratoria”, ma afferma che ”La brevità delle difese scritte ed orali ( noi avvocati non riusciamo mai ad impararlo) è forse il mezzo più sicuro per vincere le cause: perché il giudice, non costretto a stancarsi nella lettura di grossi memoriali o nell’assistere sbadigliando a interminabili arringhe, presta attenzione a mente fresca a quel poco che legge od ascolta … La brevità e la chiarezza, quando riescono a stare insieme, sono i mezzi sicuri per corrompere onestamente il giudice”.
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