Se uno ti porta via la moglie, non c’è peggior vendetta che lasciargliela.
Adulterio: incollare altrove ciò che si è rotto in casa.
Ci sono due tipi di donne: quelle che tradiscono il marito e quelle che dicono che non è vero.
Ci sono uomini che credono tanto nella famiglia che ne hanno due.
La coppia è un insieme di tre persone di cui una è temporaneamente assente.
‘Tradire’ deriva dal latino tradere cioè consegnare, sottintendendo verosimilmente ‘al nemico’. Cristo fu ‘consegnato’ da Giuda. Tradire vuol dire violare la fiducia accordata. Noi tratteremo l’argomento sotto il profilo dell’ “infedeltà coniugale“.
Nell’antica Grecia il fatto era considerato reato solo se commesso con una donna di ceto sociale elevato, essendo ben tollerata la relazione intrattenuta dagli uomini con prostitute o schiave. Nell’antica Roma, la concezione dell’adulterio variò in base al momento storico, ma arrivò perfino ad essere considerato un reato punibile con la morte (Lex Iulia de adulteriis). Nel Medioevo la donna presunta fedifraga veniva sottoposta alla prova del ferro rovente (ordalia).
Nell’impianto originario del codice penale, l’art. 559 prevedeva il reato di adulterio. Di tale fattispecie non veniva data definizione, ma era previsto sic et simpliciter che la moglie adultera venisse punita con la reclusione fino a un anno. La pena era elevabile fino a due anni nel caso vi fosse una “relazione adulterina’, e il reato veniva punito a querela della persona offesa che era ovviamente il marito. Giova ricordare che per giurisprudenza costante solo la vera e propria congiunzione carnale concretizzava il reato de quo, escludendosi invece per tutti quegli altri atti che venivano catalogati come ‘di libidine’. L’incertezza poi regnava sovrana in ordine ai cosidetti ‘rapporti contro natura’. Nel lontano 1884 Carrara sosteneva che «non costituisse adulterio tale tipo di rapporto in quanto non può ravvisarsi una vera e propria violazione del diritto maritale, trattandosi di atto di cui davvero non può vantare diritto neppure il marito». Insomma il cornificato era privo di legittimazione attiva (si direbbe in civile) in quanto non titolare del… bene.
Nel 1961 la Corte costituzionale, investita dello scrutinio di legittimità della norma, la ritenne perfettamente in armonia con l’articolo 29 della Costituzione (eguaglianza fra i coniugi), ma ciò sembrò ai più una forzatura, al punto che la questione venne continuamente sollevata dai vari giudici sino a che, nel 1968, la Corte ebbe un ripensamento. E che fosse intervenuto un mutato modo di vedere le cose legato all’ineluttabile cambiamento dei costumi, lo si rinviene in una frase contenuta nella motivazione della Sent. 126/68: «La Corte [costituzionale] ritiene che la questione meriti di essere riesaminata». Da qui le conclusioni che «il reato in questione non garantisce l’unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità».
Curiosa la tesi (avversa a quella vittoriosa) che sosteneva la costituzionalità della norma in quanto «la punizione della sola moglie fedifraga risponde all’esigenza di salvaguardare la famiglia». A distanza esatta di un anno cadde sotto la mannaia della Corte Costituzionale anche il concubinato. Al venir meno del reato di adulterio, il comico Marcello Marchesi così sentenziò: «L’adulterio non è più reato, è uno svago».
La fedeltà coniugale viene presa oggi in considerazione dalla giurisprudenza soprattutto per quanto attiene l’addebitabilità della separazione fra i coniugi.
Svariate le tematiche affrontate dai giudici e risolte a volte in maniera assolutamente difforme. Un primo esempio ci viene dalla durata di tale obbligo, se cioè esso permanga anche dopo la separazione. La posizione ‘rigida’ è stata assunta da molti giudici di merito per i quali «anche dopo la separazione dei coniugi permane il dovere personale reciproco di fedeltà che non può ritenersi violabile senza limiti non solo perché la sua inosservanza può pregiudicare definitivamente la ripresa della comunione interconiugale, e perché, in presenza di figli, si esige una condotta che non rechi loro pregiudizio, ma soprattutto per la correttezza dovuta alla permanenza del vincolo e, cioè, al rispetto della dignità dell’altro soggetto il quale conserva la qualità di coniuge» (App. Perugia, 18 luglio1997).
Di parere diverso la Suprema Corte, per la quale il coniuge che, dopo l’udienza presidenziale nel giudizio di separazione, intrecci relazione con altro partner, non viola i doveri di fedeltà e ad esso non può essere attribuito il relativo addebito (Cass. civ., Sez. I, 17 luglio 1999, n. 7566).
Per ciò che attiene invece il tradimento con persone dello stesso sesso, la Cassazione non ha dubbi: è tale. Ne sa qualcosa un antiquario marchigiano che aveva lasciato la moglie per il commesso del negozio e si è visto appioppare l’addebito, confermando così analoga sentenza della corte di appello di Ancona.
Molto curiosa la vicenda della quale si è occupata la Cassazione civile con Sent. 1 marzo 2005 n. 4290. Una tizia chiedeva al tribunale di Palermo di pronunziare la separazione dal marito dal quale aveva avuto tre figlie, con addebito al medesimo, da lei accusato d’innumerevoli tradimenti, di aver costituito un nucleo familiare con altra donna, dalla quale aveva avuto due figli, e di avere lasciato la casa coniugale. Sapete com’è andata a finire? Che la ‘tradita’ fu scoperta essere stata ‘traditrice’ e per di più con un’altra donna! E come se non bastasse quest’altra donna altro non era che… una compagna di classe di una delle figlie! Da qui la conferma da parte della Cassazione della sentenza del tribunale siciliano che le aveva addebitato la separazione.
Una questione particolare è quella che riguarda la cosiddetta infedeltà apparente (una sorta di cornificazione a salve). Poche le sentenze rinvenibili. Fra queste merita di essere menzionata quella della corte di appello di Roma del 15 ottobre 2004 la quale ha ritenuto che «in tema di cosiddetta infedeltà apparente, la separazione è addebitabile al coniuge che abbia consapevolmente posto in essere una condotta tale da ingenerare nell’altro coniuge e nei terzi il fondato sospetto del tradimento, arrecando, con tale condotta un pregiudizio alla dignità personale del coniuge, valutata in relazione alla sensibilità di questi e dell’ambiente in cui vive».
Per trovare qualcosa di simile nella giurisprudenza di legittimità, occorre andare molto indietro nel tempo. Siamo nel 1983 e per i supremi giudici «l’infedeltà apparente, fra coniugi separati, integra l’ipotesi dell’ingiuria grave e costituisce causa di addebito qualora: a) la condotta del coniuge infedele sia tale da ingenerare nell’altro coniuge e nei terzi il fondato sospetto del tradimento; b) il comportamento sia animato dalla consapevolezza e dalla volontà di commettere un fatto lesivo dell’altrui onore e dignità; c) dalla condotta dell’infedele sia derivato un pregiudizio per la dignità personale dell’altro coniuge, attesa la sensibilità del tradito e dell’ambiente in cui vive».
Una sottocategoria di sesso apparente è il sesso virtuale. Ben presto i giudici saranno chiamati a decidere se ‘prostituirsi’ in Second life (mondo virtuale in cui ognuno si inventa un’esistenza parallela) può costituire ‘tradimento’ e come tale presupposto per una separazione per colpa. Lo spunto è dato da una richiesta in tal senso avanzata da un marito ‘tradito’, un quarantenne di Massa sposato da 15 anni con un’irreprensibile impiegata, che maneggiando (lui, il marito) sul WEB, scopre che in Second Life vi è una bella prostituta che – guarda caso – porta nome e cognome della moglie. Torna a casa tra l’arrabbiato e l’incredulo e scopre la moglie attaccata al computer ancora intenta a esercitare (si fa per dire) il mestiere più antico del mondo. Sarà considerato tradimento? Ai giudici l’ardua sentenza.
Con l’avvento del WEB i giudici si troveranno sempre più frequentemente di fronte a casi bizzarri, come questo. I giornali riportano la notizia di indagini in corso per furto di oggetti di arredo. Che cosa c’è di strano? verrebbe da chiedersi. Nulla, se non il fatto che gli oggetti rubati non sono reali, ma… virtuali, in quanto si trovavano all’interno di una casa su Facebook. La notizia potrebbe sembrare inventata, se i giornali non riportassero nome e cognome della ‘proprietaria’ (Paola Letizia), il luogo di residenza (Palermo) e l’attività lavorativa (impiegata del Pubblico Registro Automobilistico). Si conosce anche la ‘refurtiva’: divani di marca, quadri, idromassaggio, un acquario e perfino un tavolo da biliardo. In verità il titolo di reato non è furto, ma introduzione abusiva in sistema informatico. Il p.m. Marco Verzera aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma i legali non si sono arresi e il g.i.p. Fernando Sestito ha deciso di proseguire le indagini. Troveranno il ‘mouse’ d’appartamento virtuale?
Rientriamo nel seminato. Quali diritti può far valere il coniuge tradito? Secondo la giurisprudenza uno e uno solo, cioè l’addebito all’altro coniuge del fallimento matrimoniale. Questo almeno secondo il tribunale di Savona, per il quale «La violazione degli obblighi personali che reciprocamente derivano ai coniugi è sanzionata con l’addebito della separazione a carico di chi ha tenuto il comportamento inosservante. Dunque, non può essere accordato, in caso di adulterio, il danno biologico al coniuge tradito».
Per la verità il tradimento può avere anche risvolti di natura penale e in particolare concretizzare il reato di maltrattamenti, a patto che l’infedeltà sia ‘ostentata’. Così la Cassazione ha condannato ad anni due e mesi sei di reclusione un tipo che era stato assolto in primo grado, ritenuto responsabile di maltrattamenti in famiglia, consistiti nell’essersi vantato in maniera plateale dei tradimenti.
Ma che succede nel caso della relazione tollerata? Il coniuge che ‘tollera’ perde tutti i diritti attribuitigli per l’infedeltà coniugale? Secondo la Cassazione parrebbe di sì. Infatti «I comportamenti contrari ai doveri del matrimonio acquistano rilevanza, ai fini della separazione, solo se abbiano comunque concorso al deterioramento dei rapporti di convivenza coniugale ed alla pronuncia di separazione rendendo irreversibile la temporanea rottura; ne consegue pertanto che l’adulterio conosciuto e tollerato dall’altro coniuge non può di per sé determinare l’automatica addebitabilità della separazione, nella specie risultando privo del carattere di pregiudizio grave alla ricostituzione dell’unità familiare». Così Cass. civ., 4 dicembre 1985, n. 6063.
La Corte di Cassazione poi, con Sent. 30 Maggio 2002, si è dovuta occupare di un caso alquanto strano. Un Tizio aveva fatto pedinare la moglie sospettandola di adulterio e chiedendo oltre che l’addebito del fallimento del matrimonio, l’addebito delle… spese occorse per l’investigatore privato. Per la cronaca il Supremo Collegio ha rigettato la singolare richiesta, confermando quanto statuito dalla corte di appello di Trieste.
Infine una curiosa sentenza che declama, nel caso di percosse, una nuova causa di non punibilità: il tradimento. Ecco come recita in proposito Cass. civ., Sez. I, 10 dicembre 1996, n. 10977: «La relazione extraconiugale della moglie rende addebitabile a quest’ultima la separazione e rende, altresì, irrilevante la condotta violenta del marito, in quanto le percosse erano state inferte nell’imminenza della separazione quando il rapporto coniugale si era già guastato a causa del tradimento».
Anche se la valenza delle massime che di seguito si riportano ha carattere meramente storico, vale la pena soffermarsi circa la‘prova dell’adulterio’, specie quando non vi è la cosidetta ‘presa in flagranza’. La scoperta da parte della moglie di una lettera amorosa scritta al marito da altra donna e allegata fotografia con tanto di dedica sentimentale rinvenuta nelle tasche del presunto fedifrago, non è stata ritenuta prova del tradimento (Cass. 30 maggio 1952), mentre è stata ritenuta prova l’avere trovato i presunti amanti a casa di una terza persona, intenti a mangiare (!) con in prossimità un letto disfatto (Cass. 10 giugno 1950).
Fare il piedino è un gesto di approccio e seduzione non verbale che consiste nello sfiorare intenzionalmente col proprio piede (o con la scarpa) il piede o la scarpa della persona da sedurre. Normalmente si effettua da seduti e poiché il contatto avviene per lo più sotto un tavolo, il seduttore gioca sul dubbio che il contatto possa non essere intenzionale. In generale, è un gesto compiuto di nascosto e che implica un’intesa tra due persone, ma in molti casi esso è utilizzato come prima manifestazione di un’intenzione seduttiva, soprattutto laddove questa è volta all’immediata conquista erotica piuttosto che a un più meditato corteggiamento. Molti concordano sul fatto che il ‘fare piedino’ sia un gesto molto intimo, finalizzato a sedurre la persona che lo riceve. In particolare, le persone dedite a pratiche feticistiche, considerano questo gesto un atto di estremo erotismo. Secondo alcuni sessuologi, ‘fare piedino’ è una pratica estremamente eccitante, un inequivocabile segno di disponibilità sessuale, tanto da essere sconsigliato nelle situazioni puramente romantiche e negli incontri in cui l’approccio sessuale diretto potrebbe essere non gradito. Sentirsi toccare i piedi stimola infatti i centri nervosi lungo tutta la gamba, fino al bacino.
L’ambiguità del ‘fare piedino’ e le conseguenze che potrebbe comportare l’atto se accettato, rifiutato, frainteso o diretto alla persona sbagliata, sono stati spesso utilizzati come gag nel cinema, nel teatro e negli spot pubblicitari (ad esempio, nel film Fracchia, la belva umana e nei vari episodi di Una pallottola spuntata).
Secondo la Corte di Cassazione ‘fare piedino’ non costituisce ‘atto di libidine’ e pertanto non è penalmente punibile. L’atto di trattenere il piede di un’altra persona tra i propri non è una ‘manifestazione dell’istinto sessuale’ e quindi non è un reato. Lo ha stabilito la Sent. n. 2510 del 2000 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha annullato la condanna inflitta a un professore per atti di libidine nei confronti di una studentessa. Secondo la Suprema Corte, il comportamento del docente, che durante una gita scolastica aveva trattenuto il piede all’alunna, non è un «contatto corporeo tra imputato e alunna» e il contesto in cui si è svolto «non costituisce una inequivoca manifestazione dell’istinto sessuale».
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