“L’attuale sistema di tutela giurisdizionale dei detenuti nei confronti dei provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria non risulta disciplinato compiutamente dalla Legge e in assenza di un efficace intervento legislativo” spetta al magistrato di sorveglianza “impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati”.
Il caso che ha portato la Suprema Corte a pronunciarsi in tal modo riguardava il detenuto Catello Romano – sottoposto al regime detentivo di cui all’art. 41 bis Ord. Pen – reo confesso del consigliere del Pd Luigi Tommasino di Castellammare di Stabia, ucciso mentre era in auto con il suo bimbo. Il detenuto di religione buddista proponeva al magistrato di sorveglianza di Novara due reclami, denunciando, come lesivi dei suoi diritti, i comportamenti della Direzione della Casa Circondariale nella quale era ristretto e, precisamente, la mancanza di somministrazione di cibo vegetariano e la visita, di tanto in tanto, di un maestro zen. Il Tribunale di sorveglianza di Novara rispondeva ai reclami sollevati dal detenuto Catello spiegando nell’ordinanza di aver consigliato alla Direzione della Casa Circondariale di sostituire l’impresa che forniva i pasti e, quanto alla mancata visita di un monaco buddista zen, che si trattava di questioni che investivano non la Direzione carceraria, bensì il Ministero.
Gli Ermellini, chiamati a pronunciarsi sul caso de quo, hanno ritenuto prive di logica le risposte fornite dal magistrato di sorveglianza ai reclami sollevati dal detenuto. Difatti, i Giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato che il magistrato di sorveglianza deve emettere provvedimenti di “ natura giurisdizionale” al fine di evitare che vengano lesi i diritti di chi si trova in stato detentivo e non limitarsi a consigliare.
Questa pronuncia ha evidenziato che i carcerati, anche quelli sottoposti al Regime di carcere duro, ex art. 41 bis Ord. Pen., vanno rispettati e tutelati riconoscendo loro tutti i diritti. Difatti, il loro stato di detenzione speciale, lasciatemi passare il termine, consistente nel limitare al massimo i contatti sia all’interno con gli altri detenuti, sia all’esterno con i familiari e l’avvocato difensore ( la parola d’ordine di questa realtà carceraria è isolamento), nell’esclusione da tutti i benefici: quali permessi, arresti domiciliari…; e, ancora, nell’essere sottoposti ad una sorveglianza particolare da parte del GOM ( Gruppo operativo mobile), non giustifica, in alcun modo, che sia violato il principio di umanità “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” Pertanto, se la protesta formulata da un detenuto si fonda su un vero e proprio diritto quale è ad esempio l’esercizio del culto, alla luce della recente pronuncia non ci si può limitare “ad un vedremo che cosa si può fare”, ma occorre adoperarsi al fine di rimuovere ogni ostacolo che possa impedire l’esercizio di quel diritto invocato, attivando la procedura ad hoc per una valida risposta a quanto pronunciato.
Tale sentenza ha, dunque, richiamato l’attenzione et sulla realtà carceraria et , soprattutto, sui diritti che i carcerati, in quanto persone, hanno diritto ad essere riconosciuti.
Varcare i cancelli di una carcere significa lasciare dietro di sé quanto di bello la vita possa offrire. Innanzitutto entrare a far parte della realtà carceraria significa perdere la libertà, perdere i contatti con la società, con la famiglia, con gli affetti più cari… Nonostante ciò, non bisogna dimenticare che i detenuti continuano ad esser persone e a mantenere lo status di cittadino e, per questo, restano titolari dei diritti previsti e tutelati dalla Costituzione.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha, in diverse pronunce, ribadito che la detenzione ” non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale” (Corte Costituzionale, sentenze n. 349/1993 e n. 526/2000). E, ancora, “la tutela costituzionale dei diritti fondamentali dell’uomo, ed in particolare la garanzia della inviolabilità della libertà personale sancita dall’articolo 13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni che, com’è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta” (Corte Costituzionale, sentenze n. 349/1993, n. 204/1974, n. 185/1985, n. 312/1985, 374/1987, n. 53/1993). E, ancora, anche al detenuto deve essere “riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalità umana che la pena non intacca” (Corte Costituzionale, sentenze n. 349/1993 e n. 114/1979).
La realtà carceraria, seppur dura, deve in ogni caso rispettare il principio di umanizzazione, ciò al fine di non avvilire, annullare il detenuto. Sono, difatti, riconosciuti, nel rispetto della Costituzione e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Uomo, al detenuto una serie di diritti: diritto alla salute, diritto di praticare il proprio culto, diritto ad un’alimentazione sana….
La dignità umana va sempre rispettata! I detenuti vanno rispettati, ascoltati al fine di consentire loro di mantenere quella dimensione umana che il sistema coercitivo e punitivo fa venir meno.
Violare i diritti dei detenuti significa violare i principi su cui si basa la nostra Costituzione!
Alla luce della recente pronuncia della Suprema Corte e sulla base di queste brevi considerazioni, chi scrive ritiene legittimo affermare che la Carta Costituzionale costituisce, per ogni cittadino detenuto o meno, sottoposto o meno al regime del carcere duro, il biglietto da visita vincente cui far riferimento ogni qual volta venga lesa la dignità della sua persona.
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