La mancanza di data certa nelle scritture prodotte si configura come fatto impeditivo all’accoglimento della domanda oggetto di eccezione in senso lato, in quanto tale rilevabile anche di ufficio dal giudice.
La rilevazione di ufficio dell’eccezione determina la necessità di disporre la relativa comunicazione alle parti per eventuali osservazioni e richieste e subordina la decisione nel merito all’effettuazione del detto adempimento.”
Si tratta dei principi di diritto, alcuni ribaditi, altri stabiliti dalle Sezioni Unite di Cassazione con sentenza n. 4213 del 20 febbraio 2013, con la quale i giudici di Piazza Cavour hanno provveduto a comporre il contrasto giurisprudenziale circa la configurabilità del requisito della certezza della data di scritture come elemento costitutivo della fattispecie sostanziale o piuttosto come elemento impeditivo del riconoscimento del diritto.
Da ultimo, la soluzione di tale questione ha imposto ai giudici di affrontarne e risolverne un’altra.
Occorre procedere con ordine, posto che diversi ed interconnessi sono i punti di diritto rilevanti affrontati dai giudici.
1. La posizione di terzietà del curatore
Nel caso di specie l’analisi della posizione del curatore è avvenuta con riferimento all’insinuazione al passivo di un credito relativo a un rapporto commerciale posto in essere in data anteriore al fallimento.
Come affermato dagli stessi giudici, quella sulla posizione del curatore rispetto agli atti del fallito è una questione “in passato ampiamente discussa sia in dottrina che in giurisprudenza (e con esiti non sempre coincidenti)” .
In dottrina si sono conosciute varie opinioni in merito. Qualche autore ha considerato il curatore parte formale in sostituzione del fallito , altri quale rappresentante dei creditori in sostituzione al fallito o quale parte in posizione di imparzialità (al pari del Pubblico Ministero) , altri ancora come speciale informatore e assistente del giudice.
Al contrario, in giurisprudenza è andato affermandosi un orientamento. In effetti, già nel 1990 le Sezioni Unite di Cassazione avevano sancito il principio secondo cui in sede di formazione del passivo il curatore opera quale terzo rispetto agli atti del fallito .
Accanto all’autorevole presa di posizione delle Sezioni Unite, molte sono le decisioni in linea con tale impostazione. Nella sentenza in commento giudici affermano appunto che “ai fini della delibazione della domanda di ammissione al passivo del fallimento proposta dal creditore, il curatore è da considerare terzo rispetto agli atti compiuti dal fallito (C. 12/132824, C. 12/9175, C. 12/2299, C. 09/22430, e in epoca più remota C. 00/9539, C. 00/1370, C. 98/8143, C. 98/4551, C. 96/5920, C. 95/2707, C. 95/1110)”.
A sostegno di tale argomentazione i giudici rilevano, tra l’altro, un dato di fatto “del tutto incontestabile”: il curatore, che non è successore del fallito, non ha partecipato al rapporto giuridico posto alla base della pretesa creditoria fatta valere in sede di ammissione.
Muta la forma ma non la sostanza in un’altra sentenza in cui si legge che “nel procedimento di accertamento del passivo fallimentare, il curatore assume una posizione di terzietà rispetto ai creditori concorsuali e rispetto al fallito e non gli possono quindi essere opposte le scritture prive di data certa anteriore al fallimento” (Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2001, n. 6465, FI, 2001, I, 3542).
Nonostante l’intervento delle Sezioni Unite di qualche anno prima, si ricordano comunque due sentenze del 1992 in cui i giudici di Cassazione avevano ritenuto che il curatore nella fase di verifica dello stato passivo non assumesse la qualità di terzo (se non limitatamente alle azioni revocatorie o di simulazione), bensì di collaboratore del giudice, con la conseguenza che egli non fosse legittimato ad eccepire l’inopponibilità delle scritture per mancanza di data certa .
Alla luce dell’unanime orientamento giurisprudenziale, deve affermarsi che il curatore, rappresentando anche e soprattutto gli interessi della massa creditoria, nella sua veste di incaricato istituzionalmente alla formazione dello stato passivo svolge una funzione di gestione del patrimonio del fallito in posizione di terzietà .
Giunti a questo punto, è chiaro che la qualificazione del curatore quale terzo piuttosto che parte comporta una serie di conseguenze in relazione all’opponibilità di certi documenti, e più in generale al regime delle prove. Ci si appresta allora ad approfondire quest’ulteriore tema affrontato dai giudici.
2. (Segue) conseguente operatività dei limiti probatori ex art. 2704 c.c.
Come spiegato, gli ermellini – in linea con il principio giurisprudenziale consolidato – hanno ritenuto che il curatore sia terzo e non parte, non essendo un successore del fallito e non avendo, peraltro, preso parte al rapporto giuridico posto a base del credito fatto valere in sede di insinuazione al passivo.
Di conseguenza, in sede di verifica dei crediti, in ordine all’individuazione della data di scritture private trova piena applicazione il primo comma dell’art. 2704 c.c., anziché l’art. 2710 c.c. come preteso dal creditore ricorrente.
Egli lamentava la violazione di quest’ultimo articolo e riteneva che le “fatture di vendita non contestate – per di più supportate da bolle di consegna delle merci” fossero idonee “a dare prova di un rapporto obbligatorio sorto prima della dichiarazione di fallimento”, e valutabili appunto ex art. 2710 c.c., ai sensi del quale “i libri bollati e vidimati nelle forme di legge (2214 e seguenti), quando sono regolarmente tenuti, possono fare prova tra imprenditori (2082) per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa”.
In relazione a tale articolo, si precisa che la giurisprudenza ricomprende anche le fatture nell’ambito applicativo della stessa (sebbene occorra considerare se vi sia stata o meno contestazione) . E sempre la giurisprudenza ritiene che i documenti di cui si parla, pur se regolarmente tenuti, “non hanno valore di prova legale a favore dell’imprenditore che le ha redatte, spettando sempre la loro valutazione al libero apprezzamento del giudice, ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. proc. civ., la cui valutazione, se congruamente motivata, è insindacabile in sede di legittimità” .
Fatte le dovute precisazioni e ritornando alla vicenda in esame, il creditore concorsuale avrebbe preteso l’operatività di una norma in un caso privo di un presupposto di legge: la qualità di imprenditore in capo ai soggetti coinvolti nel rapporto d’impresa al quale si riferiscono le scritture prodotte in giudizio .
Infatti come già detto, il curatore non è successore del fallito, né di fatto ha partecipato alla formazione del suddetto rapporto. Egli non può, quindi, essere considerato imprenditore.
Stando così le cose, i giudici hanno ben puntualizzato che il creditore, interessato all’insinuazione del proprio credito sulla base di documenti relativi a un rapporto commerciale sorto prima della dichiarazione di fallimento, deve agire rispettando la cd. “regola della certezza e computabilità” della data ex art. 2704 c.c.
Peraltro, a sostegno dell’operatività di quest’ultimo articolo non v’è solo il dato di fatto “incontestabile” di cui sopra. I giudici hanno infatti richiamato la sentenza delle Sezioni Unite del 1990 nella parte in cui si legge che, al fine di stabilire l’anteriorità del credito azionato all’apertura della procedura concorsuale, “la norma che sempre dovrà essere tenuta presente … non può che essere quella più rigorosa, vale a dire quella dell’art. 2704 c.c., comma 1” .
A proposito di questo articolo, sebbene si sia molto discusso se le scritture private – prodotte in sede di insinuazione al passivo quale prova del credito – necessitassero o meno di data certa, negli ultimi anni e con una certa costanza la giurisprudenza ha dato risposta affermativa .
Inoltre, è ormai consolidato il principio per cui “l’inopponibilità (art. 2704 c.c.) non riguarda il negozio, ma la data della scrittura e cioè attiene non all’efficacia dell’atto ma solo alla prova che del momento della stipulazione voglia darsi mediante la scrittura e che, pertanto, la prova del negozio e della sua anteriorità rispetto al fallimento può essere fornita, astraendo dal documento probatorio, con tutti gli altri mezzi consentiti, anche nei confronti dei terzi – e quindi del curatore – salvo le normali limitazioni derivanti dalla natura e dall’oggetto del negozio stesso” .
A tal proposito, nel caso di specie, l’autenticazione notarile apposta alle fatture prodotte dal creditore è stata ritenuta irrilevante ai fini dell’art. 2704 c.c. poiché successiva alla data di dichiarazione di fallimento.
3. Le questioni da risolvere e i chiarimenti sul requisito della data certa
Il primo nodo da sciogliere, come già detto in apertura, ha riguardato la valenza dell’elemento della data certa dei documenti prodotti a sostegno del credito per cui si richiede la partecipazione al passivo: fatto costitutivo del credito o impeditivo all’accoglimento dell’istanza creditoria?
I giudici interpellati, prima di giungere alle loro conclusioni, hanno illustrato le tre correnti di pensiero esistenti sul punto.
Secondo alcuni il requisito della data certa è da ritenere elemento costitutivo del diritto di insinuarsi nel passivo fallimentare, con la conseguenza che l’onere di provarlo incombe sul creditore istante. Altri invece sono dell’opinione che l’assenza di data certa sia un fatto impeditivo e come tale debba essere introdotto nel processo esclusivamente a seguito di specifica eccezione del curatore. Infine, per una terza corrente di pensiero dalla mancanza della data certa deriverebbe l’assenza del fatto costitutivo del diritto azionato, e ciò configurerebbe tale elemento come eccezione in senso lato, per ciò rilevabile di ufficio dal giudice.
Premesso ciò, i giudici di Piazza Cavour risolvono questa prima questione nel senso che la mancanza del requisito in esame configura un fatto impeditivo dell’istanza d’insinuazione al passivo.
A ben riflettere, tale soluzione appare giustificata dalla difficile posizione in cui si troverebbe il creditore istante se dovesse provare la data certa. I giudici fanno notare come la necessità di dimostrare l’anteriorità del credito alla dichiarazione di fallimento si porrebbe in contrasto con la natura del rapporto commerciale, in relazione al quale operano le semplificazioni probatorie di cui agli artt. 2709 e 2710 c.c., introdotte dal legislatore proprio per agevolare gli scambi commerciali.
Inoltre, parlare di fatto impeditivo appare più ragionevole anche alla luce dei principi vigenti nel nostro ordinamento. Infatti, in ambito di regolamentazione e gestione del regime probatorio bisogna considerare, oltre alla suddetta distinzione tra fatti costitutivi e impeditivi, anche il principio della disponibilità dei mezzi di prova, dal quale discende che deve preferirsi l’interpretazione della legge che non renda impossibile o estremamente difficoltoso l’esercizio del diritto di agire in giudizio, che la Carta Costituzionale tutela . Ebbene, a parere degli ermellini il creditore istante conoscerebbe una tale difficoltà qualora gli fosse imposto di dimostrare la priorità del proprio credito rispetto alla data del fallimento.
Una simile conclusione non ha però significato conformarsi al secondo dei tre orientamenti sopra riportati. Anzi, i giudici hanno affrontato un’ulteriore questione, ossia “se la deduzione del detto fatto debba essere o meno oggetto di eccezione in senso stretto, che in quanto tale potrebbe essere sollevata soltanto dalla parte, nella specie identificabile nel curatore” .
A tal proposito, si sottolinea che l’eccezione in senso stretto – rilevabile su istanza di parte – ha carattere eccezionale, ed è quindi limitata ai casi espressamente previsti dalla legge .
Ora, nella legge fallimentare non si rinviene alcuna riserva di legge in tal senso. A ben vedere, l’art. 95 L. fall., nel disporre che “il curatore può eccepire i fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione”, non prevede alcuna esclusiva in favore del curatore in merito all’eccezione di cui si discute.
Alla luce di queste considerazioni, i giudici hanno quindi concluso che la deduzione del fatto impeditivo in questione non rientra nella suddetta categoria .
Essa è piuttosto suscettibile di eccezione in senso lato, pertanto rilevabile d’ufficio dal giudice, purché sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti.
Ciò deciso, è stato infine ricordato che nel caso in cui il giudice rilevi l’eccezione, questi debba instaurare il contraddittorio fra le parti sul punto. Un tale obbligo discende, infatti, da quelle regole (art. 183 e 101, c. 2, c.p.c.) che sono espressione del principio del rispetto del contraddittorio (art. 111 Cost.).
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