Lo ribadiamo per l’ennesima volta: dall’applicazione del caotico, sgangherato e sconclusionato “riordino” delle province previsto dall’articolo 17 della cosiddetta “spending review” all’amatriciana compiuta con la legge 135/2012, non scaturisce nemmeno un centesimo di risparmio. Vedere, per credere, la tabella elaborata dalla Ragioneria Generale dello Stato sugli effetti finanziari della legge.
Le anime belle o chi non sa o finge di non sapere che le province, in quanto enti locali, al pari dei comuni rendono servizi diretti alla cittadinanza (meno noti, ma non per questo inesistenti), hanno portato avanti una battaglia inutile, quando a tutti era chiaro e noto da tempo che per riordinare le istituzioni e la spesa le misure da prendere sono ben altre, molto più semplici, dirette ed efficaci.
Le province non sono affatto un centro di potere e di decisione di spesa. Lo sono, invece, gli enti dotati di potestà legislativa: lo Stato e le regioni. E lo sono i grandissimi comuni, spesso capaci di orientare leggi di spesa, anche solo volte a ripianare immensi deficit (il caso Catania docet).
Lo Stato fin qui, contrariamente a quanto afferma il Sottosegretario Polillo, nelle varie leggi contenenti misure di risparmio finanziario, ha fatto tutt’altro che la sua parte: i tagli alle spese continuano a gravare per circa l’80% su regioni ed enti locali. L’amministrazione centrale per sé taglia solo le briciole.
E’ noto, inoltre, a tutti e da tempo che le regioni costituiscono una fonte di spesa incontrollata sotto diversi punti di vista. In primo luogo, per una delle maggiori cause della situazione disastrata della finanza pubblica: la spesa sanitaria, fonte di sprechi in appalti (mai utilizzata la Consip), incarichi a consulenti, primari, dirigenti, tutti ad personam, sotto stretta e diretta regìa politica, per garantire l’inefficienza del servizio pubblico e le liste di attesa interminabili, così da permettere il proliferare dell’ “efficiente” sistema privato “sussidiario”, ma in realtà “sussidiato” da infiniti fondi pubblici.
E’ noto, e da tempo, a tutti che le regioni sono un potere fortissimo, perché muovono la spesa, la creano innovando il diritto con le proprie leggi. Ma, al contempo, sono un potere troppo debole per resistere alle lusinghe di lobbies, che magari a Roma conterebbero meno, ma sul territorio regionale incidono eccome su scelte dissennate in tema di lavori pubblici, finanziamenti alle imprese, governo del territorio.
E’ noto a tutti, e da tempo, che i consigli regionali sono un apparato costosissimo, che parametra gli emolumenti dei consiglieri regionali a quelli di deputati e senatori, ma con un livello di “produttività” infinitamente più basso. I consigli regionali annualmente sfornano pochissime (ma costosissime) leggi, in media meno di dieci. Nonostante gli stipendi da nababbo per chi queste leggi le vota.
Il costo dei consigli regionali di 20 regioni sfiora il miliardo di euro. Il dimezzamento delle province, determinato dalla spending review, potrebbe abbattere un “costo della politica” connesso agli organi di governo provinciali inferiore ai 65 milioni.
L’intervento sulle province è insignificante sul piano finanziario, ma devastante su quello organizzativo. Una vera revisione della spesa non potrebbe che prendere in esame per prima cosa i livelli rilevantissimi della spesa non direttamente ricadente sulla carne viva dei cittadini: la spesa, cioè, mossa prevalentemente da Stato e regioni.
L’onda di indignazione per i soldi pubblici finiti in ostriche e champagne nel Lazio adesso sta facendo lievitare la voglia di abolire le regioni.
Noi, che viviamo nelle istituzioni, così come reputiamo affrettata e non decisiva l’abolizione delle province, allo stesso modo riteniamo che l’eliminazione delle regioni di per sé non è una risposta.
Certo, i fatti avvenuti confermano senza più alcun tema di smentita che l’avventura “federalista” è stata una follia. Ha portato a due contemporanee nefaste conseguenze: l’aumento dei poteri decisionali e di spesa locali, insieme con la sostanziale eliminazione di ogni controllo preventivo.
Fino a giungere al paradosso: i gruppi consiliari del Lazio esentati da qualsiasi obbligo rendicontativo della spesa finanziata, tuttavia, interamente con risorse pubbliche.
Una revisione della spesa seria, non affascinata dal facile populismo, avrebbe dovuto affrontare il problema altrettanto seriamente, con poche e chiare decisioni costituzionalmente compatibili, aprendo la strada all’abolizione urgente, con la nuova legislatura, della iattura rappresentata dal Titolo V della Costituzione, come uscito dalla dissennata riforma del 2000.
In primo luogo, ripristinare controlli preventivi di legittimità e di merito su ogni atto di spesa. Va bene la trasparenza, l’obbligo di informare e pubblicare. Ma alle decisioni delle amministrazioni occorre mettere un filtro. Troppi “eletti dal popolo”, contando sulla lentezza e l’inefficacia dei procedimenti penali e di responsabilità contabile, si dicono disposti ad affrontare il rischio di adottare atti illegittimi, dannosi, assunti nell’interesse di pochi e a detrimento di molti.
Un riordino istituzionale ci vuole. Ma le province sono 107, a fronte di 15580 istituzioni pubbliche, censite in questo numero spropositato dall’Istat nel 2001. E’ proprio utile e serio partire a razionalizzare un angoletto del fienile, quando tutto il fieno è malamente accatastato? E’ il tema che molti propongono. Un’altra delle fonti di spesa totalmente fuori controllo delle regioni è il numero immenso, ma non conosciuto, di agenzie, enti, società, componenti un planetario complessissimo, irto di satelliti degli enti regionali, con costi spesso ripianati a piè di lista.
La spending review, sorprendentemente, sfiora soltanto l’argomento e mentre prende di punta le province, che potrebbero costituire la naturale aggregazione locale dei servizi resi da consorzi, comunità montane, bacini imbriferi e la variegatissima lista di enti regionali, spinge i comuni a creare nuovi enti debolissimi, convenzioni o unioni dei comuni, senza prevedere la fusione dei comuni e, di conseguenza, creando molti più “mini feudi” (utilizzando l’infelice espressione del Ministro Patroni Griffi) di quanto la legge tenda ad eliminare.
Ripristinati controlli fitti e pervasivi, ovviamente dovrebbe essere estirpato a qualsiasi livello di governo la sola possibilità di immaginare spese non rendicontabili.
Altro passaggio fondamentale: eliminare qualsiasi norma similare all’articolo 90 del d.lgs 267/2000 o all’articolo 14 del d.lgs 165/2001, che dia la possibilità agli organi di governo di costituire a proprio piacimento “staff” con persone assunte senza concorso per chiamata diretta, spesso, per altro, dirottate a svolgere funzioni di campagna elettorale o solo di immagine e comunicazione, comunque per nulla pertinenti alla gestione delle funzioni.
La dirigenza pubblica di ruolo e la magistratura sono ricchissime di competenze e abilità. Non si vede la necessità di continuare a reclutare dall’esterno apparati paralleli, che di fatto sostituiscono apparati di partito e vengono pagati, però, con risorse pubbliche.
Altro modo immediato per conseguire risparmi è eliminare immediatamente in capo agli organi di governo poteri da king maker, per la nomina diretta di componenti degli organi di amministrazione di società ed enti. Il tesoriere della Lega chiamato come amministratore della Fincantieri o le periodiche manfrine sul consiglio di amministrazione della Rai dimostrano come le scelte non siano, troppo spesso, compiute in base a competenza, ma alla mera valutazione dell’appartenenza a tutto detrimento dell’efficienza e dell’utilità pubblica.
Queste decisioni, certo forti, ma semplici da attuare, avrebbero dato immediatamente non solo il “segnale” che, invece, si vuole spacciare con l’inutile riordino delle province, ma anche risparmi concreti, quantificabili da subito finanziariamente, e nel lungo periodo assicurando processi di spesa ponderati, non azzardati, tali da tenere in primo luogo conto della necessità di assicurare come primo obiettivo dopo quello del beneficio per i cittadini, quello della puntualità dei pagamenti ai fornitori.
La vicenda della regione Lazio, ma prima ancora della sanità in Lombardia, rivelano, dunque, che il re è nudo. La campagna contro le province, ancora una volta, è solo fumo negli occhi, un piccolo inutile trofeo offerto ad una popolazione ormai stanca. Che, però, se abituata ai trofei ne chiede altri. Vorrà quello delle regioni. E poi quello dello Stato, a ciò indotta anche da pericolose teorie neoliberiste che lo appellano come “ladro”. Ma, se si dovesse perdere l’ultimo atomo di coscienza civica e di convivere civile, lo spazio all’anarchia o al commissariamento permanente di Germania e banche sarebbero inevitabili. E’ proprio questo quello che si vuole?
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