Il Porcellum a Corte: una storia dal finale incerto

Metà del lavoro sembrerebbe fatta: non è poco, certamente, anche se non dà (purtroppo) garanzie sulla conclusione. Che il Porcellum, sorta di monstrum giuridico, sia tacciato di incostituzionalità da più parti e sotto vari profili, è cosa nota e da tempo; che i mezzi per trasformare quei sospetti e quelle accuse in un’occasione per togliere seriamente di mezzo quella legge – o, per lo meno, i suoi punti più discutibili – fossero ridotti al lumicino, era altrettanto noto agli esperti di diritto. Come è noto, esclusa l’ipotesi di un ricorso diretto alla Corte costituzionale (previsto solo nel rapporto Stato-Regioni), in Italia i dubbi di violazione della Carta possono essere fatti valere unicamente se nascono all’interno di un processo, con lo strumento del ricorso incidentale. Su questa base, era tutto meno che scontato che la Consulta potesse essere investita da un giudice – di qualunque grado – della questione di legittimità costituzionale sulla legge elettorale in vigore.

È riuscito nell’intento, almeno per questo primo passo, il procedimento instaurato dall’avvocato Aldo Bozzi a novembre del 2009 come «cittadino elettore» presso il Tribunale di Milano: si tratta, a quanto pare di capire, di un’azione dichiarativa civile – preceduta probabilmente dalla presentazione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. – in cui sono stati convenuti la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno, sostenendo che nelle ultime due tornate elettorali politiche (e, ora lo si può dire, anche in quella successiva) aveva potuto esercitare il suo diritto di voto secondo modalità contrarie agli standard di eguaglianza, libertà e segretezza del voto (consacrati dall’art. 48, comma 2 Cost.), nonché alla formula del suffragio universale e diretto (fatta propria dagli artt. 56, comma 1 e 58, comma 1 Cost.). In sostanza, l’azione sarebbe volta a dichiarare l’impossibilità di esercitare il voto in modo libero e diretto, certamente in base alla Costituzione ma anche con riguardo al Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti umani: al suo interno, si colloca la questione di legittimità costituzionale sollevata sui punti nevralgici del Porcellum (o, meglio, delle disposizioni delle fonti previgenti in materia elettorale, così come modificate nel 2005).

Tra i punti viziati da illegittimità costituzionale, Bozzi cita le liste bloccate (cui è stata legata la ben nota formula del “Parlamento di nominati” e che finirebbero per violare anche il divieto di mandato imperativo ex art. 67 Cost.), il premio di maggioranza (che renderebbe “diseguali” i voti a seconda della loro collocazione, attribuirebbe la maggioranza assoluta dei seggi anche a chi ottenesse una percentuale di voti ben lontana dal 50%; la frammentazione del premio su base regionale al Senato, poi, creerebbe ulteriori lesioni all’eguaglianza del voto) e l’indicazione del nome del capo della forza politica o della coalizione (perché limiterebbe tanto la libertà del voto quando il potere di nomina del Presidente del Consiglio da parte del Quirinale).

Tanto il Tribunale, quanto la Corte d’appello avevano respinto le domande di Bozzi e dichiarato «manifestamente infondate» le questioni di costituzionalità, ritenendo che l’uguaglianza dei voti nell’urna e nel conteggio non fosse in discussione, così come fosse comunque assicurato il voto diretto non essendo prevista un’elezione di secondo grado; la libertà del voto, poi, non sarebbe stata minata dalle liste bloccate, poiché resterebbe la libertà di scegliere tra le liste, mentre gli effetti distorsivi del consenso elettorale, compresi quelli legati al premio di maggioranza (non negati dai giudici) sarebbero indiretti, non lesivi della Costituzione e unicamente rimessi alle scelte “politiche” del Parlamento.

Ora, invece, la Cassazione – nella sua ordinanza sez. I, 21 marzo – 17 maggio 2013, n. 12060 – sembra seguire un percorso diverso. Innanzitutto la Suprema Corte riconosce l’interesse ad agire degli elettori perché sia riconosciuta la pienezza del loro diritto di voto, ma ritiene anche che l’azione non sia stata intrapresa all’unico scopo di interpellare la Corte costituzionale su una questione astratta: il collegio, infatti, ritiene che lo scopo principale del ricorrente-attore sia ottenere la rimozione dei pregiudizi al pieno esercizio del diritto di voto, una volta che essi siano stati accertati (l’azione dunque avrebbe anche valore costitutivo); in più il pregiudizio al diritto di voto, in quanto diritto inviolabile e permanente, sarebbe sufficiente a giustificare la meritevolezza dell’interesse ad agire, anche per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale altrimenti a rischio. Da ultimo, il fatto che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Consulta sia poi utilizzata per ripristinare la pienezza del diritto di voto consente di dire che chi ha intrapreso il procedimento non l’ha fatto solo per far intervenire la Corte costituzionale ma appunto per vedere ristabilita la pienezza del suo diritto, per cui si tratta davvero di un giudizio incidentale e non di un giudizio diretto “mascherato”. Queste riflessioni, obiettivamente, sono di una certa importanza, perché possono costituire un precedente in caso di futuri tentativi di far dichiarare l’incostituzionalità di una norma della legge elettorale: sembrano anche tenere conto, in qualche modo, della difficoltà di portare altrimenti all’attenzione del giudice delle leggi la normativa che consente di trasformare i voti in seggi.

Il passo successivo dell’ordinanza è la valutazione della non manifesta infondatezza delle questioni sollevate da Bozzi. Per la Cassazione non sarebbero manifestamente infondate (il che è ben lontano da una bocciatura, ma indica solo un “minimo sospetto” di illegittimità costituzionale) le questioni relative ai premi di maggioranza e all’esclusione del voto di preferenza. Sul primo aspetto, il collegio nota che è sufficiente uno scarto minimo di voti per far scattare il premio e che non è prevista alcuna soglia minima perché ciò accada: ciò consente di temere che la legge n. 270/2005, nell’alterare i rapporti proporzionali tra maggioranza e minoranza, consenta «una sproporzione talmente grave da risultare irragionevole», addirittura ostacolando la governabilità del sistema (cioè proprio l’esigenza alla base del premio) in caso di fratture successive nella coalizione “premiata”. Si sarebbe allora di fronte a un meccanismo «normativamente programmato» per un esito irrazionale e che, dunque, potrebbe violare varie disposizioni costituzionali, soprattutto gli artt. 3 e 48 comma 2; la governabilità, poi, al Senato sarebbe messa a rischio dalla «sommatoria casuale dei premi regionali che finiscono per elidersi tra loro e possono addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste e coalizioni […] su base nazionale», col concreto rischio di maggioranze parlamentari non coincidenti (e con un diverso peso del voto a seconda della sua collocazione geografica).

Questo punto è relativamente convincente, se non altro perché riprende molte osservazioni in tal senso venute dai “custodi della Costituzione” per eccellenza, ossia il Capo dello Stato (la stessa ordinanza lo cita) e la Corte costituzionale, tanto nelle sentenze che non hanno ammesso i referendum dei cd. “comitati Morrone-Parisi-Castagnetti” sulla stessa legge elettorale, quanto nell’ultimo intervento pubblico del presidente della Corte, Franco Gallo, in cui – era il 12 aprile – si ricordavano gli inviti al legislatore a «riconsiderare gli aspetti problematici della legge n. 270 del 2005 “con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza (…) senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi”». Sul piano della fondatezza, dunque, la Corte costituzionale potrebbe decidere di essere coerente con quanto espresso in passato, per non trovarsi nell’imbarazzante situazione di chi smentisce se stesso.

Convince meno, invece, il modo in cui viene rinviato l’altro punto, quello legato all’abolizione del voto di preferenza: il che, si badi, non significa affatto dire che la norma è priva di vizi. Secondo la Cassazione, ci sono dubbi sul fatto che sia rispettata la previsione costituzionale del voto diretto (artt. 56 e 58) attraverso il voto a un “blocco” di persone e sul fatto che sia realmente «libero» e «personale» un voto «spersonalizzato» (l’espressione è dei giudici) in cui l’elettore non ha facoltà di scegliere l’eletto, visto che sono i partiti a determinare nei fatti gli eletti attraverso l’ordine di lista, ma la Costituzione riserva a quelle forme associative un ruolo concorrente all’espressione del voto, non sostitutivo del corpo elettorale.

Non convince questa ricostruzione, si diceva, non perché dica cose sbagliate (ma è più che lecito dubitare che la lista bloccata crei un vincolo di mandato, visto che non impedisce ad esempio le “migrazioni” in altri gruppi), ma perché le mette a fuoco in un modo che pare inappropriato e controproducente. La lista bloccata, infatti, in sé non viola direttamente il principio di libertà del voto, perché una lista “corta” (composta magari solo da tre o quattro nomi) non limita la libertà, essendo consentita all’elettore la scelta tra piccoli gruppi di persone. Il vero problema, al contrario, è dato dalla “lunghezza” esagerata di queste liste – anche oltre i venti nomi – che davvero consente ai partiti di predeterminare le posizioni eleggibili (e anche, se del caso, di stabilire chi dei candidati dovrà pagare il “contributo” legato all’eleggibilità o meno); altre distorsioni gravissime sono date poi dalla possibilità data ai candidati di essere presenti anche in tutte le circoscrizioni, per cui è il partito a decidere (attraverso le opzioni) quali liste far “scalare” e dunque chi entrerà in Parlamento, alla faccia di chi ha potuto solo votare in cabina una lista di nomi, piacesse o meno. Questo, tuttavia, non si trova nella questione di costituzionalità e – a onor del vero – sarebbe anche difficile immaginare un intervento della Corte in questa direzione: certo è però che è altrettanto improbabile che la Consulta possa dichiarare tout court l’illegittimità costituzionale delle liste bloccate.

Le perplessità, peraltro, non si esauriscono qui. In primo luogo, i vizi del Porcellum non sono certo tutti compendiati dal ricorso-citazione di Bozzi; mancano, per dire, alcuni tra quelli più evidenti (si pensi ad esempio all’irrazionalità di escludere la Valle d’Aosta dal computo dei voti per il premio di maggioranza a Montecitorio). Persino l’indicazione del capo della forza politica o della coalizione avrebbe potuto costituire ulteriore motivo di illegittimità costituzionale: giustamente la Cassazione nega che la previsione possa menomare i poteri spettanti al Presidente della Repubblica in base alla Costituzione, ma si potrebbe tranquillamente sostenere che è illegittimo che la legge elettorale non preveda l’indicazione di quel nome né sulla scheda né sul manifesto delle candidature, per dare agli elettori la possibilità di un voto più consapevole, dunque più libero.

Come che sia, il giudice delle leggi sarà chiamato a pronunciarsi in materia, ma immaginare l’esito sarebbe un azzardo completo. A pensarci bene, in tutti i casi in cui la Corte costituzionale è stata chiamata di recente a intervenire sulla legge elettorale, ha sempre cercato il modo più “elegante” di sbarazzarsi delle varie questioni, limitandosi a lanciare moniti (forse nemmeno troppo potenti e, forse anche per questo, puntualmente inascoltati) al legislatore perché intervenisse a modificare i punti più critici, a partire dal premio di maggioranza: questo è accaduto soprattutto in occasione della mancata ammissione dei referendum sulla legge n. 270/2005 all’inizio del 2012, quando la Corte ha utilizzato l’impossibilità di configurare la reviviscenza delle norme abrogate da disposizioni abrogatrici (cioè del cd. Mattarellum) per evitare di entrare nel merito della questione.

Il fatto è che davvero la materia elettorale è caratterizzata da una grande discrezionalità del legislatore, cioè del Parlamento. Forse può non bastare a escludere ab initio che sia sollevata una questione di legittimità costituzionale (come ritenuto dalla Cassazione), ma lasciare alla Corte costituzionale la decisione su alcuni interventi rilevanti di cosmesi in quella materia – soprattutto quelli relativi al premio di maggioranza, che rischierebbero di cambiare notevolmente la fisionomia della legge elettorale – significherebbe chiedere al giudice delle leggi di assumere su di sé una political question, una questione cioè che dovrebbe spettare non a chi controlla le leggi, ma a chi le leggi le scrive. Non sarebbe una novità (la Corte ha esercitato spesso un’opera di “supplenza”), ma il problema è proprio questo: i ruoli dovrebbero essere ben definiti, specie su temi così delicati. Certamente una dichiarazione di incostituzionalità da parte della Consulta avrebbe un peso politico enorme, in una fase in cui gli equilibri politici sono a dir poco precari. Se allora il tentativo di Bozzi è stato certamente lodevole (e ha ottenuto qualche risultato), non è escluso che la Corte cerchi di “disinnescarlo” in qualche modo, non condividendo alcuni dei ragionamenti fatti dalla Cassazione per considerare ammissibile la questione. In quel modo la Consulta salverebbe il proprio ruolo e si metterebbe al riparo da critiche prevedibili; il mostro giuridico-elettorale però resterebbe dov’è, a meno che chi dovrebbe toglierlo di mezzo (il Parlamento) conosca, alla buon’ora, un sussulto di dignità.

Gabriele Maestri

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