Il nuovo DDL in tema di “tutela della dignità in internet”. Un provvedimento necessario?

Le ormai note vicende che hanno visto coinvolto un parlamentare del Movimento 5 Stelle e alcune deputate del Partito Democratico – con l’uso di un linguaggio “poco adatto” (per usare un eufemismo) ad aule in cui si dovrebbero decidere le più nobili sorti del Paese – hanno dato il “la” all’ennesimo disegno di legge in materia di “tutela della dignità in internet” che comporta modifiche al codice della privacy (d.lgs. 196/2003), alla legge sulla stampa (L. 47/1948) oltre che ad alcuni articoli (57, 594 e 595) del codice penale.

In primo luogo sorge spontaneo domandarsi: la dignità delle persone, in un discorso de jure condito, è tutelata? c’è davvero bisogno di nuove norme? E quali sarebbero le conseguenze di un’eventuale approvazione del d.d.l. (pubblicato su La Stampa e non ancora sul sito della Camera dei Deputati)?

Per rispondere a queste domande è opportuno scorrere il testo del DDL nei suoi vari articoli.

Con l’art. 1 il DDL aggiunge un art. 131-bis nel d.lgs. 196/2003. Tale norma – rubricata “tutela dei minori” – introduce la possibilità per i genitori di un minore (ovviamente degli anni 18) che abbia “registrato mediante falsa dichiarazione di maggiore età i propri dati su un sito web”, di inoltrare “anche singolarmente” una richiesta (non è indicato a chi debba essere inoltrata ma si potrebbe supporre che si faccia riferimento al “fornitore di servizi di comunicazione elettronica” ossia al soggetto indicato dal secondo comma lett. e) dell’art. 4 del d.lgs. 196/2003) per l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore.

Tale norma è superflua, se non restrittiva, rispetto alla situazione attuale. Superflua perché già ora, in applicazione delle norme del Codice della Privacy, è possibile ottenere lo stesso risultato. Restrittiva perché limiterebbe la possibilità dei genitori (quid juris nel caso in cui il minore non abbia più i genitori o questi abbiano perso la potestà genitoriale?) ai soli casi in cui il minore abbia registrato i dati personali “mediante falsa dichiarazione di maggiore età”. Il secondo comma prevede la possibilità di rivolgersi al Garante Privacy che dovrebbe provvedere a seguito di reclamo o segnalazione.

Si introduce, poi, un art. 137-bis (sempre nel Codice della Privacy) in base al quale l’interessato “ha diritto di ottenere l’aggiornamento e l’integrazione dei propri dati personali pubblicati in emeroteche telematiche, secondo gli sviluppi che la notizia abbia avuto”.

E’ bene evidenziare che il codice dei dati personali si occupa di dati personali, non già di attualità di una “notizia”, quindi, ma di attualità dei dati personali trattati. La norma è superflua perché già oggi è riconosciuto il diritto all’oblio (e sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione Civile, ad esempio, con la sent. n. 5525/2012). Bisogna, però, fare attenzione a non pensare che il diritto all’oblio sia il “diritto ad essere cancellati dalla rete”. Sarebbe un grosso errore e ci scaraventerebbe nella situazione di “riscrittura della storia” preconizzata da Orwell nel suo “1984”. Diritto all’oblio, invece, salvaguarda “la proiezione sociale dell’identità personale” che deve mantenere, nel tempo, la sua attualità. Ma tutto questo è già previsto, in primis, dall’art. 11 del Codice della Privacy.

Con l’art. 3 del DDL si vorrebbero introdurre ampie e consistenti novità alla legge sulla stampa (L. 47/1948). Si introduce, innanzitutto, un secondo comma all’art. 1 della legge-stampa prevedendo l’applicabilità di tutte le norme della L. 47/48 anche alle “testate giornalistiche on line registrate”. Tale norma parrebbe voler “riequilibrare” quella situazione che – a seguito di numerose sentenze di legittimità (tra tutte Cass. Pen. 35511/2010) e di merito – aveva escluso per le testate online l’applicabilità, in ambito penale, di una serie di norme (tra cui, ad esempio, l’aggravante di cui all’art. 13 L.S. o il reato di cui all’art. 57 c.p.) in quanto confliggenti con il divieto di interpretazione analogica in malam partem della norma penale e, più in generale, confliggente con l’art. 25 Cost.

Ebbene. Questo articolo eliminerebbe questa situazione di “disparità” tra stampa tradizionale e “stampa online” rendendo, di fatto, applicabili le sanzioni penali a situazioni prima non disciplinate.

Con ciò non si intenda pensare che nel diritto penale esista un “vuoto di tutela”. Ricordiamo che la sanzione penale è – o almeno dovrebbe rappresentare – l’extrema ratio dell’Ordinamento. Non si può dire che la mancanza di una sanzione penale per una particolare fattispecie rappresenti un “vuoto di tutela”.

Una modifica più sostanziosa viene riservata, sempre dall’art. 3 del DDL, all’art. 8 della Legge Stampa in tema di “risposte e rettifiche”. Si prevede l’estensione anche alla testata giornalistica online registrata l’obbligo per il direttore o responsabile di pubblicare gratuitamente e senza commento la rettifica che dovrà essere pubblicata “non oltre due giorni” dalla ricezione della richiesta.

Si prevede, poi, che qualora la rettifica venga pubblicata in ritardo o non venga pubblicata affatto entro i suddetti termini il richiedente potrà rivolgersi al Garante Privacy. Ciò a differenza di quanto avveniva in passato (rectius oggi) quando, cioè, la richiesta deve essere fatta al Giudice in composizione monocratica nelle forme del 700 c.p.c. Una forma agevole e rapida, quest’ultima, che, qualora affidata all’Ufficio del Garante Privacy, sarebbe pregiudicata (in tutta probabilità) anche in “rapidità”. E si consideri che con il ricorso ex art. 700 c.p.c. il “richiedente” (o meglio il ricorrente) dovrebbe esporre al Giudice anche il fumus, ossia le ragioni di fondo che giustificano la richiesta di rettifica (e, quindi, anche il fumus in merito alla sussistenza dell’eventuale lesione della dignità personale). Compiti, questi ultimi, che difficilmente si conciliano con la funzione istituzionale del Garante per la protezione dei dati personali. Qui, infatti, non si discute di “trattamento di dati personali” ma di “offesa” (si veda l’eventuale comma 8 dell’art. 8 come risultante dopo le modifiche del DDL). Il giudice – nell’eventuale procedimento penale o civile per diffamazione – dovrebbe considerare (in base al “nuovo” art. 11-bis L.S. ex DDL) nella quantificazione del danno anche l’“effetto riparatorio della pubblicazione e della diffusione della rettifica”.

Dopo aver previsto l’abrogazione dell’art. 12 L.S. si crea ex novo l’art. 13 della Legge Stampa.

Qui si trova la più importante novità del DDL. L’attuale articolo 13 prevede che “nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a lire 500.000”. Questo articolo rappresenta un’aggravante per il solo reato di diffamazione (non anche per il reato di omesso controllo di cui all’art. 57 c.p.) che eleva la pena detentiva sino al massimo edittale di 6 anni. Ciò comporta, in base all’art. 550 c.p.p., che per il reato di diffamazione a mezzo stampa (secondo l’accezione delimitata dalla Cassazione) consistente nell’attribuzione di un fatto determinato sia prevista la celebrazione dell’udienza preliminare.

Il nuovo primo comma dell’art. 13 così come disegnato dal DDL, invece, stravolge completamente questa impostazione creando una fattispecie autonoma e speciale rispetto a quella prevista dall’art. 595 c.p. e creando, quindi, una sorta di disparità di trattamento tra i casi di diffamazione “a mezzo stampa” (secondo la nuova definizione dell’art. 1 della L.S. introdotta dal DDL) e gli altri casi di diffamazione. Per fare un esempio, qualora la diffamazione sia commessa a mezzo di una testata telematica registrata si prevede la sanzione della multa da € 2.000 a € 10.000; nel caso di diffamazione commessa, invece, a mezzo blog (ad esempio) la pena è quella della multa da € 1.000 a euro 7.000 aumentata della metà ai sensi del “nuovo” ultimo comma dell’art. 595 ossia da € 1.500 a € 10.500. Se poi si contesti e riconosca anche l’aggravante del “fatto determinato” nel primo caso (nell’esempio fatto della testata online registrata) la pena applicabile sarebbe quella della multa da € 10.000 ad € 50.000 e per il secondo caso (in base al disposto dell’art. 63 c.p.) la pena sarebbe quella della multa fino ad € 12.000 ma il giudice potrebbe ulteriormente aumentarla. Bisogna, però, evidenziare che l’aggravante ad effetto speciale che si vorrebbe introdurre in base all’ultimo periodo del primo comma del novellato art. 13 prevede l’aggravante del solo “fatto determinato falso la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità”. A parte i profili problematici legati alla prova della sussistenza di tale elemento del fatto tipico descritto si crea un discrimine tra la diffamazione dell’art. 13 L.S. e la diffamazione dell’art. 595 c.p. dove, in quest’ultimo caso, non si prevede che il fatto determinato debba anche essere “falso”.

Alla condanna per la diffamazione dell’art. 13 L.S. consegue la pena accessoria della pubblicazione della sentenza e, in caso di recidiva per reato della stessa indole, la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da uno a sei mesi.

Si introduce, poi, un nuovo reato che richiama le pene previste dal primo comma dell’art. 13 per il direttore o vicedirettore responsabile del “quotidiano, del periodico o della testata giornalistica, radiofonica o televisiva o della testata giornalistica online registrata” che abbia rifiutato di pubblicare le dichiarazioni o le rettifiche dell’art. 8.

Ora. E’ abbastanza pacifico che tale reato sarebbe di difficile configurazione (e prova). Il DDL ha già previsto che in caso di “mancata o incompleta ottemperanza” all’obbligo di cui ai primi tre “nuovi” commi dell’art. 8 L.S. consegua la sanzione amministrativa pecuniaria da € 8.000 ad € 16.000. Il nuovo terzo comma dell’art. 13, invece, prevede la sanzione penale per il caso di “rifiuto”. Si potranno verificare zone d’ombra e dubbi interpretativi anche alla luce dell’art. 9 della L. 689/1981.

Un punto che potrebbe definirsi un “orrore giuridico” è, poi, contenuto nel nuovo quarto comma dell’art. 13 L.S. in cui si prevede che “il giudice, acquisita la notizia dell’avvenuta pubblicazione delle dichiarazioni o, ai sensi dell’art. 8, delle rettifiche pronuncia sentenza di non luogo a procedere”. Non si capisce, innanzitutto, che tipo di causa di non punibilità il legislatore del DDL abbia inteso introdurre. Ma di maggior interesse per i processual-penalisti è il riferimento alla “sentenza di non luogo a procedere”. Questo tipo di sentenza, prevista dall’art. 425 c.p.p., è “esclusivo appannaggio” del Giudice dell’Udienza Preliminare (e quindi è una sentenza di proscioglimento che può aversi solo a seguito di udienza preliminare). Ma tale sentenza non potrebbe mai aversi per alcun tipo di diffamazione – così come ridisegnata nel DDL – in quanto l’eliminazione della sanzione della reclusione nel suo limite edittale “fino a sei anni” impedirebbe l’applicazione dell’art. 550 c.p.p. e, pertanto, non si celebrerebbe mai (per il solo fatto di diffamazione in qualsiasi “salsa” aggravata) l’udienza preliminare.

Si introduce, poi, una deroga alle norme sulla competenza – probabilmente tenendo a mente, ma disponendo a contrario – le recenti pronunce della Cassazione in tema di competenza territoriale per i casi di diffamazione online (ultimo “nuovo” comma dell’art. 21 L.S.).

Notevoli sono, quindi, le modifiche agli artt. 57, 594 e 595 del codice penale. L’art. 57 c.p. è una norma mal digerita in passato e setacciata (e salvata) dalla giurisprudenza della Consulta per il noto problema della responsabilità oggettiva.

Il DDL trasforma il reato di cui all’art. 57 da delitto colposo a delitto doloso (estendendo la norma penale incriminatrice anche alla “testata giornalistica online registrata”) e facendo richiamo quoad poenam ai “delitti commessi con il mezzo della stampa…” (e quindi esclusivo richiamo al novellando art. 13 Legge Stampa) ma riducendola di un terzo. Il reato per il “direttore o vicedirettore responsabile” si configurerà quando il delitto (richiamo implicito ai “delitti commessi con il mezzo della stampa, della diffusione radiotelevisiva o con altri mezzi di diffusione”) sia “conseguenza della violazione dei doveri di vigilanza sul contenuto della pubblicazione”. Cambierebbe rispetto al passato (rectius: ad oggi) il richiamo ad una “violazione dei doveri di vigilanza” piuttosto che alla “omissione dell’esercizio del controllo necessario che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati”.

Per tornare ai casi pratici, il direttore o vice-direttore responsabile sarebbe assoggettato, alla pena della multa da € 1.200 (circa) ad € 6.666,66 (circa) (nel caso della prima parte del primo comma dell’art. 13 novellando) o da € 6.666,66 (circa) € 33.333,33 (circa) (nel caso previsto dalla seconda parte del medesimo primo comma).

Si prevede, poi, singolarmente la possibilità di “istituire” una sorta di “delegato alla sanzione penale” (con atto scritto avente data certa accettato dal delegato) nella figura di uno o più giornalisti professionisti. In questo caso come si atteggerebbe la norma penale incriminatrice?

Poche le modifiche al reato di ingiuria: giusto quelle suggerite dalla CEDU nel caso Belpietro contro Italia (ricorso n. 42612/10), ossia la eliminazione della sanzione detentiva. Ma con un sostanzioso incremento della sanzione pecuniaria.

Poche le modifiche anche all’art. 595 c.p. (diffamazione) e nello stesso senso di quelle previste dall’art. 594, ma con una inutile precisazione e distinzione: l’inserimento, nel terzo comma, dell’inciso “in via telematica”. Checché se ne possa pensare, l’attuale formulazione del terzo comma dell’art. 595 c.p. (“qualsiasi altro mezzo di pubblicità”) ricomprende già i casi di diffamazione a mezzo internet o, se si preferisce, “in via telematica”.

In conclusione si tratta di un disegno di legge che merita alcuni ripensamenti e modifiche (anche di ordine tecnico-normativo) anche sul versante del coinvolgimento del Garante della Privacy nella valutazione di situazioni a lui istituzionalmente sottratte. Occorre, poi, ri-valutare la effettiva necessità di introdurre nuove e più stringenti norme penali incriminatrici nell’ottica dell’extrema ratio. Ogni qualvolta, infatti, singole situazioni concrete – come quelle purtroppo subite dalle deputate del PD – si presentino non siano pretesto per introdurre nuove norme in tutta fretta, anche perché il rischio di creare norme-bavaglio o norme-superflue è sempre dietro l’angolo. Si potrebbe, invece, in considerazione della sovraesposizione dei giornalisti a querele per diffamazione, pensare all’introduzione di “correttivi” a tutela del sereno esercizio del diritto di cronaca. Si consideri, da ultimo, che la rimozione di ogni sanzione detentiva per i reati in oggetto determinerebbe i Pubblici Ministeri a richiedere – nella stragrande maggioranza dei casi – l’emissione di decreti penali di condanna (con tutte le considerazioni che ne conseguirebbero in merito all’opportunità, soprattutto per i giornalisti, di proporre opposizione).

Francesco Paolo Micozzi

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