Il volume, che si legge agilmente (sono meno di 150 pagine, che scorrono in maniera molto fluida), è diviso essenzialmente in tre parti. La prima, con un racconto di Andrea Camilleri, è dedicata a un giudice torinese inviato in Sicilia subito dopo i fatti politici conseguenti l’unità d’Italia. La seconda parte è costituita invece da un racconto di Carlo Lucarelli, ambientato a Bologna nel 1980. La terza storia, a firma di Giancarlo De Cataldo, si volge nei giorni nostri in una piccola città di provincia.
Tutti e tre gli autori giocano, con grandissima sapienza (ed esperienza), sui tre caratteri dei giudici attorno ai quali incardinano la loro breve storia. E ognuno dei tre autori usa, al meglio, la dote caratteristica del suo modo di scrivere che ha già riscontrato successo in tante altre opere: Camilleri punta sulla sicilianità, sul senso dell’umorismo e su quella sua capacità fuori dal comune di descrivere con pochi tratti bellissimi contesti paesani, Lucarelli mette sul tavolo l’approccio poliziesco e d’azione, con tempi serrati e tanto sangue, mentre De Cataldo offre al lettore una commistione sopraffina di passato e presente, politica e questioni giuridiche, sogni e realtà.
Nel primo racconto Camilleri descrive l’arrivo di un giudice torinese in una città della Sicilia, subito dopo l’unità d’Italia, con l’intento di “ricostruire” il Tribunale che versa in condizioni disastrate. I temi di sfondo spaziano dalla disorganizzazione degli uffici al rapporto con la criminalità organizzata locale e con i potenti del luogo. Le atmosfere descritte sono molto simili quelle viste e apprezzate nei grandi film del secondo dopoguerra (mi sovviene, ad esempio, “In nome della legge” di Pietro Germi, girato peraltro a Sciacca) e il personaggio del giudice, come caratterizzato da Camilleri, è davvero originale: disincantato, puro, con qualche piccola nevrosi ma rigido nel suo codice etico e nella sua professione e pronto a passare sopra a ogni cosa pur di far trionfare la giustizia.
Lucarelli cambia completamente ambientazione (e registro) e disegna invece una Bologna molto scura dilaniata dai traumi di Ustica e della strage del 2 agosto e caratterizzata da inseguimenti delle volanti, sparatorie, un vivace sottobosco criminale, episodi di corruzione, servizi deviati e strani rapporti tra centri di potere e istituzioni. Il giudice in questo racconto è una “bambina”, un giovane giudice istruttore che si trova coinvolto in questioni molto delicate in un periodo storico ben preciso (e problematico).
De Cataldo, infine, gioca con i piani paralleli dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita da adulti di due acerrimi nemici che diventeranno, “da grandi”, uno pubblico ministero e uno sindaco dello stesso paese, sino a scontrarsi più volte in processo. Il tono è divertente (la parte sui sogni dilanianti del giudice pensati come scatole cinesi è geniale) ma il racconto non disdegna riflessioni serie (come quella sul tema delle intercettazioni e della loro importanza investigativa) e offre anche qualche raffinatezza processuale e qualche tocco di classe, da giurista e scrittore d’esperienza.
La lettura, come anticipavo, è in un certo senso “leggera” e rapida, ma è allo stesso tempo coinvolgente. Una nota finale: la passione cinematografica dei tre autori sembra evidente: Camilleri descrive, come dicevo, alcune scene che sembrano prese dal filone giudiziario italiano e francese del secondo dopoguerra, Lucarelli è immerso in una atmosfera alla “Romanzo criminale”, seppur localizzata nella “sua” Bologna, De Cataldo fa tornare alla mente, con l’acerrima lotta tra il sindaco e il giudice, il magistrato Bonifazi e l’imprenditore Santenocito, già interpretati da Gassman e Tognazzi in “In nome della legge”.
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