E’ noto che gli enti locali devono consentire il diritto di culto a tutte le confessioni religiose, anche individuando aree idonee a tal fine (sempre che si tratti di collettività socialmente significative).
Il diritto di culto trova dunque la sua tutela, ma anche il suo limite, nella fase di pianificazione urbanistica sulle corrette modalità di utilizzo del territorio.
Una cosa però è la destinazione principale o esclusiva di un immobile all’esercizio del culto religioso, altra cosa è l’utilizzazione, accessoria o marginale, a fini religiosi e di culto, da parte di un’associazione culturale, nell’ambito dei suoi scopi statutari. In quest’ultimo caso, non sarà nemmeno necessaria una specifica destinazione urbanistica dell’immobile (lo ha ribadito di recente il Tar Lombardia, in una vicenda che interessava il Comune di Pioltello).
Ora, l’attuale maggioranza parlamentare starebbe presentando un apposito disegno di legge sulle moschee (sono già pendenti gli AC 512 e AC 3249) che, in contrasto con i principi appena richiamati, vieta la realizzazione di nuove moschee fino a un’eventuale Intesa tra Stato e Islam.
Nelle more, gli edifici di culto dovrebbero essere autorizzato dalle regioni, addirittura “previo referendum tra la popolazione del comune interessato”.
Anzitutto, quando si parla dell’islam, sarebbe opportuno parlare al plurale: nel caso degli islam, vi è la caratteristica dell’assenza di una gerarchia e di un pluralismo di strutture associative presenti in Italia, con la (conseguente) difficoltà di individuare il grado e la qualità della rappresentanza, o rappresentatività.
Ne consegue che potrebbe non doversi escludere una pluralità di Intese, in cui parti siano distinte organizzazioni (o associazioni).
Occorre ricordare che già nel maggio 2001, due Intese, con la Congregazione dei Testimoni di Geova e con l’Unione Buddhista Italiana, non sono state poi approvate dal Parlamento e che esito analogo hanno avuto altri 5 schemi d’Intesa, approvati dal Consiglio dei Ministri il 23 luglio 2004, riguardanti la Chiesa Apostolica in Italia, la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, l’Unione Induista Italiana, Sanatana Dharma Samgha.
Ora, a prescindere dalla (problematica) approvazione parlamentare di una o più Intese con organizzazioni di rappresentanza di contesti islamici, si deve ricordare come per i culti per i quali non sia ancora stata stipulata un’Intesa (art. 8 Cost.), continua ad applicarsi la legge 24 giugno 1929, n. 1159 ed il relativo Regolamento di attuazione (R. D. 28 febbraio 1930, n. 289).
L’art 1 del Regolamento prevedeva che l’apertura di luoghi di culto fosse addirittura “autorizzata” con decreto del Presidente della Repubblica, previsione poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 del 24 novembre 1958, in quanto “ingerenza indebita dello Stato, limitativa della libertà di culto”.
La materia è comunque di competenza statale, come confermato dall’art. 117, comma 2, lett. l) Cost. (“ordinamento civile“).
Il nostro disegno di legge, invece, trasferirebbe, almeno nel periodo transitorio (in attesa d’Intese, che possono anche non intervenire o intervenire solo con questa o quella associazione islamica, con luoghi di culto consentiti all’una e vietati all’altra), competenze in capo alle regioni, subordinate a referendum popolari, col risultato di:
a) condizionare la libertà di culto da parte di quanti pratichino un culto diverso (magari senza nemmeno conoscerne i principi … e quanto ci fa paura quello non conosciamo???)
b) costituire un segnale del venir meno, in una ambito così delicato quale quello della libertà religiosa, del fondamentale ruolo dello Stato.
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