Il tema oggetto della sentenza della Corte di Cassazione n. 5525/2012, depositata il 5 aprile, è quanto mai di stretta attualità. Nelle ultime settimane, più volte e con riferimento ai casi più disparati, ci siamo frequentemente interrogati se esista una posizione ‘corretta’ da assumere rispetto a notizie e fatti di cronaca che, pur ‘veri’, sono talmente risalenti nel tempo da divenire, oggi, lesivi della dignità, del decoro, dell’onore delle persone in essi coinvolte; persone che, spesso e già da tempo, hanno visto evolversi le vicende oggetto di cronaca, anche – nel caso – definendo positivamente le relative pendenze giudiziarie.
La UE, proprio sul tema oggi in esame, nell’ambito del dibattito sulla riforma della privacy e all’interno della proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio “concernente la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione di tali dati”, presentata dalla Commissione lo scorso 25 gennaio (unitamente alla proposta di direttiva sulla “tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, e la libera circolazione di tali dati”), ha sancito che i cittadini europei hanno diritto al pieno controllo sui propri dati.
Il considerando 53, in particolare, prevede che “ogni persona deve avere il diritto di rettificare i dati personali che la riguardano e il “diritto all’oblio”, se la conservazione di tali dati non è conforme al presente regolamento. In particolare, l’interessato deve avere il diritto di chiedere che siano cancellati e non più sottoposti a trattamento i propri dati personali che non siano più necessari per le finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati…omissis..”, disposizione poi trasfusa nell’articolo 17.
Sempre l’art. 17, però, prevede precise ipotesi a norma delle quali il responsabile del trattamento non ha l’obbligo di procedere alla cancellazione dei dati, in quanto la conservazione è resa necessaria “(a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione in conformità dell’articolo 80…omissis”.
Il richiamato articolo 80, infatti, dispone che “gli Stati membri prevedono, per il trattamento dei dati personali effettuato esclusivamente a scopi giornalistici o di espressione artistica o letteraria, le esenzioni o le deroghe alle disposizioni concernenti i principi generali di cui al capo II, i diritti dell’interessato di cui al capo III, il responsabile del trattamento e l’incaricato del trattamento di cui al capo IV, il trasferimento di dati personali verso paesi terzi e organizzazioni internazionali di cui al capo V, le autorità di controllo indipendenti di cui al capo VI e la cooperazione e la coerenza di cui al capo VII, al fine di conciliare il diritto alla protezione dei dati personali e le norme sulla libertà d’espressione”.
Così, tra oblivion, right to be forgotten e right to forget, cavilli e nuovi commi – a volte poco ragionati – capita che anche l’operatore si senta un po’ smarrito, forse in attesa che arrivi qualcosa di ‘più importante’ – nel senso della gerarchia delle fonti – calato dall’alto a definire concetti che rischiavano di accavallarsi gli uni agli altri.
Nell’attesa di un (futuro? possibile?) intervento legislativo (qualcuno ricorda il disegno di legge Lussana C.2455 “Nuove disposizioni per la tutela del diritto all’oblio su internet in favore delle persone già sottoposte a indagini o imputate in un processo penale”?), però, sulla questione è intervenuta la Corte di Cassazione, che ha pronunciato sulla reperibilità tramite motore di ricerca di notizie contenenti dati giudiziari, posizionate all’interno dell’archivio storico online di una nota testata giornalistica, distinguendo tra oblio, rettifica e integrazione/aggiornamento.
Nel caso in oggetto, la Corte ha evidenziato, previo richiamo ai criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza allo scopo, esattezza e coerenza, nonché alla possibilità dell’interessato di opporsi anche a trattamenti leciti quando ciò si renda necessario per un contemperamento degli interessi in gioco, la necessità di procedere all’integrazione o aggiornamento della notizia non più attuale, divenuta “fatto storico” e quindi transitata nel relativo archivio, ma potenzialmente dannosa per la lesione della “proiezione sociale dell’identità personale” dell’interessato, che ha “diritto al rispetto della propria identità personale o morale”.
La Corte, quindi, ha evidenziato che, seppure “l’interesse pubblico alla persistente conoscenza di un fatto avvenuto in epoca (di molto) anteriore trova giustificazione nell’attività (nel caso, politica) svolta dal soggetto titolare dei dati”- motivo per cui non è astrattamente ammissibile un diritto all’oblio – “emerge la necessità, a salvaguardia dell’attuale identità sociale del soggetto cui la stessa afferisce, di garantire al medesimo la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia già di cronaca che lo riguarda”.
Tale aggiornamento viene garantito tramite “il collegamento della notizia ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l’evoluzione della vicenda, che possano completare o financo radicalmente mutare il quadro evincentesi dalla notizia originaria”, dal momento che “anche in tal caso, i dati devono risultare ‘esatti’ e ‘aggiornati’ in relazione alla finalità del loro trattamento”.
In caso contrario, infatti, “la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando, quindi, parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera”.
Tale dovere di ‘aggiornamento’ non viene posto in capo ai fruitori/lettori, ma addossato ai titolari del sito, chiamati a “dover provvedere al raggiungimento del suindicato obiettivo“.
Sentenza sicuramente spartiacque, dal momento che, al di là degli oneri che a seguito di questa pronuncia vengono ad essere addossati ai titolari dei siti – ma, come Mario Tedeschini Lalli ricorda nel suo blog, alcune grandi testate come il NYT utilizzano meccanismi di aggiornamento delle notizie, modificando il corpo del testo ed aggiungendo, in fondo, una nota con l’indicazione della correzione effettuata, e quindi, potenzialmente, potrebbero utilizzare lo stesso meccanismo per l’aggiornamento degli archivi – c’è da sottolineare come si vengono ad inquadrare, all’interno dello stesso ambito di riferimento – tutela della privacy e attività giornalistica – tre fattispecie diverse – oblio, rettifica, aggiornamento/integrazione – e si forniscono precise indicazioni interpretative agli operatori del diritto.
Particolarmente interessante anche il fatto che la Corte non abbia individuato un limite temporale oltre il quale considerare la notizia ‘non più attuale’, scelta, purtroppo, fatta in precedenza da alcuni tribunali, ma rivelatasi non particolarmente appropriata
E’ pur vero che occorrerà vedere come, in seguito alla definizione delle modalità tecniche, tale onere sarà imposto ai titolari dei relativi siti web – sarà studiato un meccanismo automatico che fornirà tutte le notizie correlate a quella richiesta, magari anche pescandole dal web? si stabilirà che l’aggiornamento dovrà essere effettuato solo a richiesta degli interessati? – ma la sentenza in oggetto arriva in un momento, e in un contesto, in cui un po’ di chiarezza terminologica – prima ancora che normativa – è necessaria.
Il diritto alla storia – come dice da sempre, in solitaria, Adriana Augenti – o il diritto alla memoria, come amo definirlo io, va salvaguardato, ma nel rispetto dei diritti degli interessati.
E a questi diritti accedono strumenti – come la rettifica e, appunto, l’aggiornamento – che rispettano la libertà di espressione ed il diritto di cronaca, tutelando, al contempo, i soggetti coinvolti nei fatti di cronaca..
Ieri la memoria si tramandava oralmente; poi venne la scrittura; ora c’è la rete.
Dimenticare non è sempre giusto. Forse è meglio ricordare.
Ma correttamente e, magari, dopo aggiornamento.
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