Demansionamento: scatta il risarcimento danni pari al 20% della retribuzione

Una recente sentenza del TAR Liguria (n. 157 del 24 gennaio 2013) ha condannato il Ministero dell’Interno al risarcimento del danno, arrecato a un vigile del fuoco a causa dell’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle del profilo d’inquadramento.
Il TAR ha liquidato il danno in via equitativa nel venti per cento della retribuzione del periodo in cui il ricorrente è stato assegnato alle mansioni inferiori.
Questa pronunzia offre l’occasione per qualche riflessione sulla questione.
Innanzitutto va ripetuto che il demansionamento è una cosa diversa dal mobbing, con il quale viene spesso confuso.
Ne ha trattato Samantha Gamberini su questo sito qualche giorno fa.
In pratica, il demansionamento è il semplice inadempimento del datore di lavoro, che non assegna il lavoratore pubblico alle mansioni cui ha diritto; il mobbing richiede qualcosa in più, e cioè la volontà di emarginare il lavoratore, e può esercitarsi anche in modo diverso dal demansionamento.
La seconda considerazione è che nel rapporto di impiego pubblico, a differenza di quello privato, il demansionamento è in genere ritenuto, dalla giurisprudenza amministrativa, in sé e per sé un fatto illecito che dà diritto al risarcimento del danno.
In altri termini, per costituire il demansionamento basta il riscontro che le mansioni assegnate sono inferiori a quelle della qualifica d’inquadramento (su questo si fondano, ad esempio, due recenti sentenze del TAR Lazio: sez. III n. 8243/2012, e sez. I n. 3151/2012).
La giurisprudenza della Cassazione, sezione lavoro, invece, richiede qualcosa in più rispetto al semplice inadempimento del datore di lavoro: il risarcimento, infatti, “non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno” (Cass., sez. lav., n.7667/2013).
Questa ulteriore richiesta è fatta propria dalla sentenza che si commenta, la quale -sulla scia della giurisprudenza della Cassazione – appunto ha escluso il danno per il semplice fatto dell’assegnazione a mansioni inferiori, ma ha ritenuto provato il danno a seguito dell’allegazione di elementi ulteriori, tra cui principalmente la perdita del prestigio che le precedenti funzioni di capo squadra gli assicuravano nel contesto lavorativo nel quale era chiamato ad operare“.
Così configurato il danno, la sentenza ha tratto da quegli elementi ulteriori i dati per calcolare il risarcimento.
In realtà mi sembra che gli elementi ulteriori, come richiesti dal TAR Liguria, riguardano più la lesione del diritto del lavoratore, ma come di qualsiasi altro cittadino, alla considerazione morale e sociale nell’ambiente in cui opera (la distinzione tra la lesione dei diritti del lavoratore e di quelli del cittadino si trova, ad esempio, in Trib. Milano n. 2949 del 20 settembre 2006).
Ciò significa che il demansionamento ha leso diritti personali ulteriori, rispetto a quello al mantenimento delle proprie capacità ed esperienza professionali: diritti che sono tutelati in proprio dall’ordinamento.
Invece, nella disciplina del lavoro pubblico esiste una norma avente valore di legge che sancisce il diritto del lavoratore pubblico allo svolgimento delle mansioni proprie della qualifica: è l’art. 52, comma1, d.lgs. n. 165/2001.
Dovrebbe bastare il riscontro della violazione di tale norma, per concludere che è stato leso un diritto, il quale va risarcito.

Dario Sammartino

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