E’ quanto sostenuto dalla Prima Sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 41715/2011, ha respinto la richiesta dei legali di Sabrina Misseri di spostare da Taranto a Potenza il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi.
Non è “in alcun modo comprovato che la massiccia campagna mediatica sviluppatasi su tutto il territorio nazionale abbia in alcun modo influito, menomandola, sul sereno ed imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie da parte dei magistrati di Taranto e abbia condizionato le loro scelte processuali o il contenuto dei provvedimenti di loro rispettiva competenza”, sottolinea la Suprema Corte.
La difesa riteneva infatti che la forte presenza dei media sul posto dove si sta celebrando il processo fosse in grado di pregiudicare seriamente la serenità dei giudici, determinando una «grave situazione locale» e incorrendo così nella fattispecie prevista dall’art. 45 c.p.p. che disciplina il trasferimento per legittimo sospetto, così come modificato, tra numerose polemiche, nel 2002.
“In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell’articolo 11“, recita l’articolo invocato dai legali.
I giudici riconoscono che la vicenda di dimensione nazionale ha avuto una rilevanza mediatica eccezionale “che, in alcune occasioni, ha travalicato le esigenze di una doverosa informazione su un fatto di incontestabile gravità”. E ammettono anche che, in questo modo, i media hanno dato luogo «alla celebrazione di processi virtuali paralleli a quelli in corso di trattazione nell’unica sede deputata» e hanno «alimentato una morbosa ed esasperata attenzione» mortificando «il principio di pari dignità di ogni persona» sancito dalla Cassazione.
Tuttavia, per gli Ermellini, proprio la dimensione «non locale, bensì nazionale, delle campagne di stampa e televisive» incide «su uno dei fondamentali presupposti dell’istituto della rimessione, ossia la gravità della situazione locale».
I giudici spiegano infatti che il legittimo sospetto è una fattispecie costituita dal ragionevole dubbio che “la gravità di una obiettiva situazione locale giustifichi la rappresentazione di un concreto pericolo della non imparzialità del giudice, inteso come ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito e possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno, dovendosi intendere per imparzialità la neutralità del giudice rispetto all’esito del processo”.
Pertanto, spiega la Cassazione, «anche l’ipotetico spostamento del processo in altre parti del territorio nazionale non eliminerebbe l’eccezionale clamore mediatico nazionale né l’interesse dell’opinione pubblica da esso alimentato, sicché ogni ufficio giudiziario verrebbe a trovarsi in una situazione di potenziale condizionamento».
Riguardo al clamore che la vicenda ha avuto anche in Rete, con la proliferazione di numerose community e di gruppi pro o contro gli imputati sui più diffusi social network, per la Cassazione non c’è nessuna prova che questi abbiano influenzato l’operato dei giudici e dell’ufficio del pubblico ministero che si occupano dell’omicidio di Sarah Scazzi. I giudici sono chiari nel sostenere l’assoluta mancanza di prove della «negativa incidenza causale sul sereno e obiettivo esercizio della funzione giudiziaria e sull’adozione dei singoli provvedimenti dei commenti proliferati sui social network, aperti ai commenti e ai contributi di una pluralità di persone dislocate in varie parti del territorio nazionale».
Insomma, il principio del giudice naturale precostituito per legge non può essere messo in discussione solamente per il sempre più frequente, e spesso anche di cattivo gusto, “circo” mediatico e telematico che ruota intorno alle, seppur eclatanti e di rilevanza nazionale, vicende giudiziarie.
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