Il caos degli ATO rifiuti in Sicilia e la responsabilità dei Sindaci

Massimo Greco 12/05/14

Le responsabilità in ordine al fallimento del sistema di gestione integrata dei rifiuti in Sicilia, che ad oggi ha maturato un debito che supera il miliardo e 200 milioni di euro, sono diffuse e non tutte riconducibili in capo alla “mala politica”. Molti dei problemi che hanno contribuito non poco ad inceppare la macchina derivano dalla mancata comprensione di un modello – quello degli ambiti territoriali ottimali (A.T.O) – che in altre parti del Paese ha invece prodotto risultati soddisfacenti. In tale contesto di “ignoranza istituzionale” spiccano i Sindaci dei comuni soci di ogni società (o consorzio d’ambito) che, più di tutti gli altri attori a vario titolo coinvolti, hanno avuto e continuano ad avere la responsabilità, nel bene e nel male, del funzionamento di questi strumenti di gestione integrata del servizio. Infatti, ancora oggi quasi tutti i Sindaci non conoscono la disciplina che regola i rapporti tra gli stessi e le società d’ambito (o le costituende società di regolamentazione rifiuti) a cui appartengono.

L’attribuzione della titolarità delle risorse per la gestione dei rifiuti è avvenuta in applicazione di quanto stabilito dal Commissario delegato per l’Emergenza rifiuti nella Regione Sicilia che, in merito, ha previsto come obbligatoria la gestione dei rifiuti in Ambito Territoriale Ottimale (A.T.O.) a mente dell’art. 233 del d.lgs n. 22/97, secondo le modalità ivi pure stabilite[1]. Secondo la giurisprudenza amministrativa, “Nella rinnovata prospettiva comunitaria in materia di gestione dei servizi pubblici facenti capo agli enti locali, la nuova normativa predilige – in luogo delle gestione diretta del servizio – una gestione ottimale per ambiti territoriali omogenei per il tramite di società d’ambito: la cui istituzione, coinvolgendo direttamente gli Enti Locali interessati, non può ritenersi lesiva della rispettiva sfera di autonomia. In conformità ai principi comunitari di adeguatezza ed efficienza dell’organizzazione del servizio di che trattasi (unitamente alla nuova rilevanza del principio della concorrenza nel settore della erogazione dei servizi pubblici) la nuova normativa si propone il superamento del modello della gestione frammentaria per singoli ambiti comunali, prevedendo forme anche obbligatorie di cooperazione tra gli enti locali”[2]. La responsabilità della gestione del servizio per ambito territoriale ottimale è stata quindi affidata alle Società d’ambito (e ai consorzi d’ambito) che sono organismi aventi propria personalità giuridica, costituita per effetto obbligatorio di norme di legge e provvedimenti commissariali adottati in regime di emergenza di protezione civile, tra enti pubblici locali territoriali e, come tali, risultano deputai alla cura di predominanti interessi pubblici.

Le richiamate disposizioni hanno realizzato un vero e proprio trasferimento di funzioni con relativo mutamento nella titolarità del potere, che dai Comuni è “traslato”, in via amministrativa, in capo all’ente pubblico appositamente costituito. A riprova di ciò si consideri che i Comuni, al netto della particolare ipotesi sopravvenuta dell’A.R.O. di cui alla recente l.r. n. 3/2013 per l’eventuale affidamento disgiunto del servizio di raccolta dei rifiuti, non hanno la possibilità giuridica di “riacquisire” il servizio, sottraendosi alla Società d’ambito e gestendolo in proprio. Con riguardo, infatti all’art. 120 della Costituzione, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “il principio di leale collaborazione tra gli enti è stato enucleato dalla Corte costituzionale con riferimento allo svolgimento dei diversi rapporti di rango costituzionale tra Stato e regioni, pur tuttavia la relativa applicazione non può condurre a situazioni di stallo decisionale che possano compromettere gli interessi pubblici oggetto delle decisioni da assumere, ed il rispetto di detto principio non può legittimare comportamenti che tendono a paralizzare la costituzione degli A.t.o. (…)”[3]. Più recentemente è stato affermato che “le Autorità d’ambito sono organizzazioni ad appartenenza necessaria per gli enti locali che ne fanno parte e che, pertanto, non possono svincolarsi da detti organismi, né dalle scelte da questi operate, potendo soltanto influire sulle relative determinazioni partecipando al processo decisionale disciplinato dalle norme statutarie e dal codice civile, in materia di società. In tale contesto, gli eventuali conflitti politici tra enti locali partecipanti all’Autorità non possono che trovare la loro composizione attraverso la mediazione politica da esplicarsi nel contesto della organizzazione istituzionale dell’Autorità medesima”[4]. In conseguenza di ciò, i Comuni quindi, non hanno poteri di regolamentazione autonoma del servizio dei rifiuti disponendo per il proprio territorio un’eventuale organizzazione difforme da quella dell’ambito. Né, tanto meno, è ipotizzabile una gestione autonoma del servizio di raccolta dei rifiuti ad opera del Comune socio della Società d’ambito, ponendosi in manifesto contrasto col principio della unicità della gestione integrata dei rifiuti previsto dall’art. 200, comma primo, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui la gestione dei rifiuti urbani è organizzata, fra l’altro, sulla base del criterio del superamento della frammentazione delle gestioni attraverso un servizio di gestione integrata dei rifiuti[5]. Tutte le funzioni residuali che gli permangono per effetto dell’art. 23 del D.lgs. n. 22/97, i Comuni li esercitano obbligatoriamente <<nella>> società d’ambito, come socio dell’Assemblea.

La nuova gestione integrata del servizio rifiuti (che trova conferma anche nelle future SS.RR.RR.) è pertanto una modalità di gestione di un servizio attribuito in forma associativa e collettiva in capo a tutti gli Enti dell’ambito territoriale ottimale, con modalità avente natura e carattere necessario, per via dell’avvenuto commissariamento emergenziale della Regione e degli Enti locali regionali in materia di rifiuti. Ad ulteriore conferma di siffatto modello istituzionale, si osserva che sono state trasferite alle Società d’ambito anche le risorse e le funzioni amministrative degli Enti; ed infine si è previsto espressamente che alla data di attivazione del servizio da parte delle Società d’ambito, le funzioni comunali in ordine al servizio vengono a cessare. Tali Società sono costituite per legge e non in base ad un patto societario, operano come strumento per il perseguimento di specifiche finalità stabilite nell’ambito di politiche ministeriali ed inoltre ad esse sono affidati obbligatoriamente determinati compiti previsti dalla legge.

In questa annosa vicenda della gestione integrata dei rifiuti in Sicilia, verosimilmente, non si è compreso che queste Società d’ambito – oggi tutte in liquidazione per essere sostituite dalle consorelle SS.RR.RR. -, pur essendo dotate formalmente di personalità giuridica, non sono soggetti differenziati dai Comuni soci. In una Società di questo tipo, la cui istituzione, e relativa adesione, è avvenuta per volontà del legislatore, i Comuni soci esercitano un “controllo gerarchico congiunto” (cosiddetto controllo analogo) così intenso che può essere assimilato al controllo che i medesimi Comuni esercitano sulle proprie strutture interne. Siffatto modello implica che la società d’ambito, che in molti casi gestisce anche in proprio il servizio, sia priva di una propria autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle della pubblica amministrazione di cui costituisce, come efficacemente descritto da parte della dottrina, un “prolungamento organizzativo”.

Postulato di queste argomentazioni è che non si è in presenza di una rapporto di tipo contrattuale tra la Società d’ambito e i Comuni soci, difettando la qualità di terzo in capo al soggetto affidatario del servizio. Si è in presenza soltanto di un rapporto organico o di delegazione inter organica, ed è per questo motivo che l’eventuali controversie che sorgono non possono che configurare vicende tutte interne alla pubblica amministrazione.

Peraltro, la presenza di più Comuni soci non affievolisce il doveroso esercizio del controllo analogo congiunto sull’operato della Società d’ambito, atteso che detto controllo deve intendersi assicurato anche se svolto non individualmente ma congiuntamente, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo e puntuale, dovendo il requisito del controllo analogo, imposto direttamente dal legislatore, essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico. Corollario di questo potere di controllo di cui dispongono i Comuni soci è l’esercizio di altrettanti poteri di indirizzo, coordinamento e ispezione sulle specifiche attività affidate ope legis alla Società d’ambito, poteri regolamentati di volta in volta dal relativo disciplinare di servizio.

Alla luce di quanto argomentato si può ragionevolmente sostenere che il sistema è fallito perché i Sindaci non hanno mai preso consapevolezza del proprio ruolo all’interno delle rispettive Società d’ambito, senza operare i necessari controlli nei confronti degli amministratori e, soprattutto, senza esercitare le necessarie funzioni d’indirizzo politico sottese al citato “controllo analogo congiunto”.


[1] Ordinanza n. 488 dell’11/06/2002 e n. 1069 del 28/11/2002.

[2] Tar Palermo, sez. I°, sent. 10/05/2006, n. 1061.

[3] TAR Catania, sez. I°, sent. n. 1974/2003.

[4] TAR Palermo, sez. III°, sent. n. 527/2014.

[5] Tale principio è stato confermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 373/2010.

Massimo Greco

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