I partiti politici non vanno riformati ma… rifondati!

Massimo Greco 10/03/12

In attesa di verificare la consistenza delle turbolenze annunciate dal calendario Maya per l’anno 2012, quello che preoccupa seriamente il nostro sistema Paese è l’anno che verrà 2013. Buona parte degli osservatori cominciano infatti a temere, con progressiva ansia, il dopo Monti, soprattutto all’indomani della dichiarazione del medesimo Professore di voler ritornare tra i libri accademici, esaurito il mandato governativo affidatogli dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento.

L’ubi consistam del nuovo incubo italiano è rappresentato dall’inadeguatezza dell’attuale sistema politico ad affrontare con la stessa determinazione, responsabilità ed autorevolezza, che dimostra di avere il Governo Monti, l’emergenza economica e finanziaria in cui si trova il Paese.

Riaffidare alle forze politiche le sorti del governo del Paese nel contesto di una crisi, di cui non si vede ancora all’orizzonte la fine, significa operare premeditatamente una manovra “alla Schettino”. Infatti, all’aumentare dell’indice di gradimento del Governo Monti si riduce quello dei partiti politici, scesi alla drammatica soglia dell’8%.

Ecco perché il caso delle primarie a Palermo, più che una balcanizzazione del centro-sinistra configura la cartina al tornasole di una sistema malato la cui terapia intensiva non può portare ad una semplice riforma dei partiti ma ad una vera rifondazione dei medesimi.

E poiché, come ha recentemente affermato il Presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelskyi partiti politici sono l’unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme” è da queste forme organizzative che dobbiamo ripartire a ragionare per animare una costruttiva discussione pubblica. I partiti, infatti, concorrono alla formazione e manifestazione della volontà popolare e sono strumento fondamentale per la partecipazione politica e democratica. Le funzioni attribuite ai medesimi nel procedimento elettorale – deposito contrassegni delle candidature individuali e di lista, raccolta firme, selezione delle candidature, presentazione delle liste, campagna elettorale, applicazione della par condicio – costituiscono l’unico modo costituzionalmente possibile e legittimo perché nelle odierne democrazie rappresentative il popolo possa esercitare la propria sovranità, cioè per “raccordare”, come dice la Corte Costituzionale, democrazia e rappresentanza politica. Il ruolo fondamentale svolto dai partiti nel procedimento elettorale assume quindi natura non solo pubblica ma anche costituzionale perché costituisce la principale modalità di esercizio del ruolo attribuito ai partiti dall’art. 49 Cost..

Dello stesso avviso sono le disposizioni normative europee secondo le quali i partiti politici, compresi quelli europei, rappresentano un elemento fondamentale nella costruzione dello spazio politico europeo, utile alla democrazia a livello europeo. Il Trattato di Lisbona, approvato il 13/12/2007, che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la ComunitàEuropea, nel contesto della disciplina delle “Disposizioni relative ai principi democratici”, individua i partiti politici quali elementi fondamentali che “contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”.

Il problema è che come in tante altre questioni, prese tardivamente di mira solo dall’azione governativa del Prof. Monti, anche il sistema dei partiti politici va rivisto con urgenza. Troppo comodo è stato per la classe politica (recte: casta?) sia della prima che della seconda repubblica mantenere a livello programmatico la previsione costituzionale contenuta nell’art. 49 della Costituzione. Nessuna forza politica, ad eccezione dei radicali, ha mai voluto affrontare la questione attraverso una legge ordinaria, per non parlare della ferita ancora aperta, ed a rischio infezione, per i recentissimi fatti verificatisi in casa PD.

In un momento difficile come questo in cui all’italiano medio viene richiesto un sacrificio straordinario ed ai limiti della sopportazione, com’è possibile continuare ad accettare che all’interno di un partito politico, di destra o di sinistra che sia, vengono utilizzati milioni di euro del finanziamento pubblico senza alcuna forma di controllo? Com’è possibile che a qualunque dipendente della pubblica amministrazione viene richiesto di rendicontare, e di rendere tracciabile secondo i principi dell’evidenza pubblica, anche l’acquisto di una matita e, di contro, accettare supinamente che i partiti politici, la cui funzione pubblica è addirittura solennemente prevista sia dalla Costituzione che dai Trattati europei, possano usare le risorse pubbliche secondo il metodo Lussi? Com’è possibile che un partito politico che dovrebbe “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” possa permettersi il lusso di scegliere coloro che dovranno rappresentarci in Parlamento attraverso il meccanismo della cooptazione fiduciaria contenuto nell’attuale sistema elettorale (Porcellum)? Perché in Francia, in Germania, e anche in Spagna, si sono dotati di adeguata legislazione in materia e solo in Italia si è deciso di rendere “intoccabili” i partiti politici protetti dalla discutibilissima campana dell’associazione di diritto privato?

Sono queste le domande a cui si deve rispondere per comprendere perché anche il legittimo tentativo di allargare la partecipazione democratica interna ai partiti attraverso le primarie rischia miseramente di fallire. Peraltro, il partito politico non può rimanere un comitato elettorale confinato nella sola sfida dei consensi ma deve ritornare ad essere il luogo dove si fa politica 24 ore su 24. E’ questa la funzione che la Costituzione, per quanto snobbata dalla classe politica dominante, ha loro assegnato. Ed è all’uso corretto del suo esercizio che la società civile deve fare appello, anche nel solco dei nuovi strumenti di rendicontazione sociale introdotti nel nostro ordinamento a proposito di azioni correttive (class action) nei confronti delle Istituzioni che esercitano funzioni pubbliche.

Del resto, perché un dipendente pubblico che gestisce allegramente le risorse pubbliche viene condannato dalla Corte dei Conti per danno erariale e un dirigente di partito no?

Perché il dipendente pubblico, riconosciuto pubblico ufficiale, rischia la condanna per abuso d’ufficio nel caso di violazioni dei doveri del suo ufficio e questo non accade per la maladministration accertata del dirigente di partito?

E ancora, perché nella nuova filosofia introdotta nell’ordinamento statale attraverso le leggi Brunetta, la trasparenza, insieme al principio meritocratico (e ai corollari di quest’ultimo, quali la previsione di sistemi premianti), rappresentano le principali leve del miglioramento prestazionale richiesto alle pubbliche amministrazioni, atteso che la meritocrazia dovrebbe spingere verso l’alto le motivazioni dei dipendenti pubblici e la trasparenza dovrebbe consentire il controllo diffuso dei cc.dd. “stakeholders”, ossia dei cittadini, delle imprese e degli utenti destinatari finali dell’otput delle funzioni e dei servizi offerti dalle amministrazioni, e questo modello di esercizio della funzione pubblica customer oriented basato sul controllo diffuso della cittadinanza e dell’utenza sulle reali performance della pubblica amministrazione non deve valere anche per i partiti politici?

Sic stantibus res, urge dunque una vera discussione sull’argomento, anche per scongiurare la causa che secondo lo storico Otto Seeck (1850-1921) determinò la caduta dell’impero romano: “la selezione naturale alla rovescia”, cioè la progressiva cooptazione dei peggiori e la complementare eliminazione dei migliori.

Ancorare il finanziamento pubblico alla dimostrazione di reali processi democratici interni ai partiti politici e al rispetto dell’art. 51 della Costituzione è cosa buona e giusta ma riflettere sulla opportunità/necessità di pubblicizzare la natura giuridica degli stessi potrebbe essere la terapia più idonea non solo per tentare di riconquistare la fiducia perduta, ma per rendere appetibile la partecipazione attiva di quei “tecnici” che si occupano di politica solo “a progetto”.

Massimo Greco

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