Con la Legge Fornero (92/2012) si sono andati a modificare più aspetti delle dinamiche del lavoro nel nostro Paese, ma il punto in cui più “profondi” sono stati gli effetti (le virgolette sono obbligate dalle tesi che si sono confrontate, alcune delle quali molto più liberali in tema di licenziamenti, e nient’affatto riposte nel dimenticatoio) è la modifica delle regole del licenziamento individuale.
È risaputo che il decennio dal quale si esce ha avuto come argomento principe la disciplina dei licenziamenti individuali. Dopo l’omicidio di Marco Biagi e, quattro giorni dopo, la manifestazione romana della CGIL di Cofferati che vide 3 mln di persone al Circo Massimo per gridare no ai licenziamenti facili, e dopo che il governo Berlusconi si assopì sul tema dei licenziamenti, puntando solo sullo svecchiamento del mercato del lavoro redigendo, sugli appunti del Prof. Biagi, il D.lgs 276/2003, il tema del licenziamento individuale divenne una specie di fantasma. Chiunque sapeva che tutto dipendeva da quello, ma nessuno aveva il coraggio di parlarne, perché un omicidio ed una manifestazione di 3 mln di persone avevano fatto da deterrente intellettuale per l’argomento. La Fornero, economista, invece, non ha perso occasione per continuare lo svecchiamento del mercato del lavoro, intervenendo anche sul tema dei licenziamenti.
Con la vecchia disciplina un datore di lavoro, un imprenditore, aveva, oltre al timore per il futuro rendimento del lavoratore che andava ad assumere, anche quello di non poter facilmente risolvere il rapporto instaurato. Dunque la posizione che venne scelta dalla generalità dei datori di lavoro italiani fu quella di limitarsi a riempirsi di contratti a tempo determinato (fatto reso già possibile dal Pacchetto Treu, ma in maniera confusionaria), in maniera tale da aggirare l’ottusità ideologica di taluni sindacati, contrari a qualsiasi forma di licenziamento più leggera. Ad onor del vero, la CISL e la UIL sottoscrissero il famoso Patto per l’Italia, che conteneva i disegni di legge 848 ed 848 bis (che volevano sospendere per pochi anni, in via sperimentale, l’articolo 18). La CGIL scelse invece la chiusura netta di fronte ad ogni ipotesi di alleggerimento della disciplina dei licenziamenti individuali. Il reale funzionamento della Triplice (CGIL, CISL e UIL) è un mistero perfino per gli studiosi di relazioni industriali, e, nonostante la posizione sia apparsa contrastata, nulla impedisce di ritenere, vista la rapidità con la quale CISL e UIL cambiarono posizione sul tema, difendendo il vecchio articolo 18, che il modo di muoversi dei tre più grandi sindacati italiani, benché apparentemente opposto, non fosse che una manifestazione dell’unità dei tre sindacati, due dei quali appoggiarono il governo e uno dei quali lo combatté. Questo modo di fare è molto più frequente di quanto una mente ingenua non possa immaginare leggendo le interviste dei sindacalisti sui giornali, ma, forse, è anche qualcosa da superare, preso atto che anche da parte degli imprenditori, soprattutto di questi tempi, questo genere di sdoppiamento farsa delle posizioni ha preso, con molta più facilità, piede, e la fuoriuscita di FIAT da Confindustria è sufficiente a dimostrare che nel mondo delle relazioni industriali, o si procede secondo verità oppure si scende in una farsa (italiana) dalla quale poi è difficile uscire (nel caso particolare dei licenziamenti, sono stati necessari dieci anni).
Difendere una disciplina che nel 2002 aveva 32 anni, e che già aveva permesso ai furbi di trovare gli inganni necessari per essere al di sopra della legge (si pensi alle lettere di dimissioni in bianco firmate senza data da centraliniste, sportelliste, cassiere, operaie, che poi pervenivano a chi di dovere non appena accertato lo stato interessante delle stesse) è stata la scelta orribile che compirono i sindacati italiani, ipocrita, liberista ed offensiva delle comuni intelligenze.
Questo argomento viene chiamato “flessibilità in uscita” per distinguerlo dalla “flessibilità in entrata”, che sarebbe quel regime leggero che permette di assumere con meno oneri al datore di lavoro. La flessibilità in uscita è una faccia della stessa medaglia (quella della flessibilità) stante il fatto che quella in uscita e quella in entrata sono concetti contemporanei (simultanei). Un’economia tonica ha bisogno di produrre con meno rigidità possibile. Le uniche rigidità ammissibili sono quelle determinate da valori costituzionali, quindi se ti licenzio perché produci poco o male per sostituirti con chi produce meglio o di più, trovami il valore costituzionale che andrei a canzonare. Non per altro, quando si parla dell’articolo sulla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) si pone sempre l’accento sul secondo comma ( “[…] Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”) dimenticandosi con estrema leggerezza che il primo comma , in molte meno parole, definisce la libertà dell’iniziativa economica. Se io imprenditore posso assumere, quello avviene perché mi sono espanso al punto di poterlo fare, ma se intervengono ostacoli interpretativi (per la maggiore e senza neanche accorgersene) che limitano la mia libertà di impresa con categorie così ampie da farci entrare di tutto (nella patria di Cicerone), ci si accorgerà del macigno di ideologia novecentesca che rende senza senso l’idea della libertà economica. Se alla fine i limiti sono più importanti della cosa che limitano, allora o la cosa limitata è nulla, come un criceto tenuto in gabbia ad Alcatraz, o sono troppi i limiti che discendono dall’interpretare le norme con ideologia. Chi scrive ritiene che l’argomento dei licenziamenti, sia perché incide sulla libertà economica dell’impresa, sia perché incide su quella dei lavoratori, sia troppo importante per essere lasciato in mani ideologiche.
Ad ogni buon conto la Riforma Fornero non è un coacervo di ideologia liberista (di primo e di secondo tipo), ma un’equilibrata struttura dei rapporti lavorativi che, intervenendo su più leggi, rende le stesse più vicine al presente.
I commi che ci riguardano in questa analisi sono quelli che vanno dal comma 37 al comma 68 dell’art. 1 L. 92/2012, ma la modifica più importante è quella contenuta nel comma 42 che va a modificare proprio l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il resto è ugualmente importante ai fini della disciplina italiana del licenziamento individuale: il primo di questi (comma 37), ad esempio, impone che la comunicazione del licenziamento debba, contestualmente ad essa, contenere anche le motivazioni per le quali il lavoratore è licenziato (da non dimenticare “contestualmente”), visto che è effettivamente una forma di rispetto di chi viene licenziato fare lui sapere anche il motivo del licenziamento e che, pur essendo nell’alveo delle piccole imprese, il licenziamento comunicato senza motivi equipara il datore di lavoro, benché sia un piccola impresa, al regime della tutela “reale” dell’articolo 18. Nella vecchia struttura legislativa, il lavoratore, entro quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento, avrebbe potuto chiedere al datore i motivi dello stesso.
In Italia esistono due tutele dal licenziamento illegittimo: la tutela debole o obbligatoria e la tutela forte o “reale”. La tutela debole è quella offerta dalla L. 604 del 1966, riguardante, fino alla L. 300 del 20 maggio del 1970, tutti i lavoratori italiani: il licenziamento non può avvenire se non per giusta causa o giustificato motivo e qualora non avesse avuto i crismi della legittimità, assegnava al lavoratore licenziato ingiustamente il diritto al risarcimento da 2,5 a 6 mensilità (che poteva anche crescere a seconda dei casi fino a 14 mensilità), quando non potesse essere riassunto (art. 8 L. 604/1966). È appunto chiamata debole perché il licenziamento illegittimo è relativamente poco oneroso, e per distinguerla dalla tutela forte dello Statuto dei Lavoratori (art 18 L. 300/1970 e comma 42 L.92/2012). La differenza tra le due tutele è determinata dalle dimensioni dell’azienda presso la quale è occupato il licenziato. Fino a 15 dipendenti si rientra nel regime della tutela debole, oltre questa cifra si va nel regime della tutela forte dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che fu appunto la ragione del contendere, dieci anni fa, tra la CGIL (e CISL e UIL in un secondo tempo) ed il governo Berlusconi. Da un lato si diceva che rendere più leggeri i licenziamenti avrebbe dato all’impresa italiana la capacità di riprogettarsi e rendersi più competitiva, e dall’altro si sentiva dire che il diritto a non essere mai licenziati (melius: a conservare fino alla pensione lo stesso posto di lavoro) facesse parte dei diritti assoluti del lavoratore. Per sostenere questa tesi ultima si faceva ricorso alla letteratura più ideologica del secolo scorso, contando su platee di auditori attempati e non in grado di capire che, imminente la concorrenza globale, le nostre aziende, per resistere alla ferocia delle imprese emergenti del mondo non occidentale, dovevano faticare molto di più. Per controbatterla (nell’alveo autorefenziale della sinistra di inizio millennio) si sosteneva invece che il regime dei licenziamenti individuali potesse interamente ritornare sotto l’egida della L. 604/66 (14 mensilità al massimo di risarcimento).
Il nuovo articolo 18, che viene la tentazione, per quanto è diventato complesso, di riportare fedelmente, stabilisce, nelle aziende che occupino più di 15 dipendenti (si omette per semplicità tutto il regime dei licenziamenti delle imprese agricole) una gradazione della responsabilità risarcitoria derivante dal licenziamento illegittimo, differenziando la casistica.
Si parte dal licenziamento intimato per ragioni discriminatorie o violanti il regime di tutela del matrimonio, della maternità e paternità (licenziamenti lesivi della persona o della famiglia) regolati dalle leggi 108/90, d.lgs 198/06 e d.lgs 151/01, che assume i caratteri di un licenziamento nullo in re ipsa. Viene compreso in questo primo elenco di casi anche l’eventuale accordo tra datore e lavoratore volto prima a far sorgere e poi ad annichilire un rapporto di lavoro determinato da un motivo illecito. Si aggiunge a tutto ciò il c.d. licenziamento ad nutum, il quale, come le tipologie precedenti di licenziamento (discriminatorio, antifamigliare etc.) indipendentemente da tutto il resto, assegna già di per sé, il diritto ad almeno 5 mensilità globali di risarcimento ed al versamento presso l’istituto di previdenza di tutti i contributi previdenziali delle mensilità. Il licenziamento ad nutum è quello che avviene “con un cenno”, dunque carente della forma scritta e degli adempienti conseguenti.
A questo regime, che è conservativo del rapporto di lavoro , si può aggiungere il caso in cui il lavoratore non intenda più lavorare dentro quell’ambito che lo ha espulso e ritenga di sostituire la possibilità di continuare a lavorare presso quell’azienda con un ulteriore risarcimento di 15 mensilità globali, questa volta scevre dall’ulteriore versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. È anche comprensibile che una persona licenziata perché gay o seguace di Sheeva non abbia alcun interesse a rientrare presso l’azienda che per queste ragioni lo licenziava.
Quando il licenziamento è privo di solidi motivi che assegnino ad esso i caratteri di giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, quando trovi che il licenziamento non assurga ad un livello tale da non essere sostituito da sanzioni disciplinari, il giudice dispone la c.d. reintegra, aggiungendo all’ordine di reintegrare il lavoratore l’obbligo per il datore di risarcirlo di una somma, dedotto quanto possa aver percepito in altre attività o quanto lo stesso giudice valuti possibile percepire in caso di ricerca di altra occupazione avvenuta con diligenza, di al massimo dodici mensilità.
Nelle altre ipotesi in cui il giudice non accerti che il licenziamento sia corollato dalla presenza di un giustificato motivo soggettivo o di una giusta causa, ma sia dipeso da ragioni che non permettono la reintegrazione del lavoratore, il giudice può disporre un risarcimento che possa arrivare fino alle 24 mensilità.
Dunque, riassumendo questo elenco da mal di testa, ci troviamo di fronte alla casistica di cui si parlava in incipit di trattazione. Questo range parte dalle almeno 5 mensilità di risarcimento più la reintegra (licenziamento discriminatorio, ad nutum, antifamigliare), passa per il caso in cui il lavoratore, illegittimamente licenziato, non voglia ritornare al lavoro in quell’azienda (che disporrebbe un risarcimento che può arrivare fino a 15 mensilità), si tocca l’apice nel caso in cui sia il giudice a ritenere che non sia più giusto che il lavoratore torni a lavorare in quell’azienda, che si regola facendo scegliere il giudice tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di risarcimento e si scende al caso del licenziamento avvenuto con carenze formali che dà al giudice la possibilità di orientarsi tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità di risarcimento.
Il favor laboratoris, che veniva prima accordato, adesso sembrerebbe solo intimidito, non sostanzialmente modificato. Che differenza possono fare 3 mensilità nel risarcimento massimo ai fini degli interessi del datore di lavoro? In realtà il richiamo portato dalla Legge Fornero non è indirizzato genericamente agli operatori o ai lavoratori, ma ai giudici, colpevoli, innanzitutto di aver reso deboli agli inganni le norme esistenti (si pensi alle dimissioni in bianco) ed in secondo luogo di aver prodotto, per tramite di un indubitabile favore verso il lavoratore e di un’ansia punitiva ideologica verso le imprese, il fatto che i risarcimenti fossero sempre puntivi verso i datori. Non si vuole qui sostenere che il datore sia per ideologia immacolato da colpe (non è così), solo che c’è un modo equilibrato con cui sarebbe dovuto amministrasi il potere di emettere sentenza ed uno che equilibrato non lo è affatto. La coperta è ancora corta, lo è sempre stata, e se ci si copre le spalle i piedi rimangono senza protezione.
La dottrina ha fatto rientrare per anni il risarcimento per il licenziamento illegittimo nella categoria delle “pene private”, che è una categoria propria del diritto civile che vuole che per il danno ingiusto subìto il risarcimento sia una pena, intesa in senso civilistico, comminata al datore. Nonostante sia molto romantico ritenere che si possa punire il datore di lavoro che non ha rispettato la dignità del lavoratore (e chi più ne ha più ne metta), non bisogna dimenticare che, a maggior ragione se il risarcimento (o la reintegra o la conversione del rapporto di lavoro) vengono statuiti dal giudice, questo non avviene per comminare una sanzione , ma per riportare in equilibrio la società che per tramite del diritto civile viene regolata e che a causa del licenziamento illegittimo avrebbe subìto una lesione.
Non si potrà non ironizzare su quella parte della dottrina lavoristica che ha considerato il risarcimento da licenziamento individuale illegittimo come una pena privata verso il datore, visto che è, purtroppo, la stessa dottrina che si mostra indisponibile a valutare la responsabilità individuale dei mobbers, fagocitando il fenomeno nella nostra società. Come dice un grandissimo processualista italiano “delle due l’una”, a voler dire che quando bisognerebbe considerare le pene private, complice la pigrizia giurisprudenziale, ci si rifiuta di farlo in nome di un ideologico contrasto al mondo dell’impresa, e quando si dovrebbe assicurare all’economia un poco più di respiro, invece, non si perde tempo a farlo, quasi a sancire che certa parte ideologica della dottrina lavoristica e civilistica italiana abbia perso contatto con la realtà (sia letteralmente in fuga da essa).
Adesso, per fortuna, non sarà più possibile (melius: sarà un imperativo morale) per i giudici essere leggeri nel comminare queste loro dicenti “pene private”, e, per la dottrina, arrampicarsi sugli specchi in nome della tenuta di una vera e propria ideologia che la ha animata finora e di cui approfittare è facilissimo (si pensi al diritto di sciopero degli avvocati).
Dalla Legge Fornero in avanti, che sarà ancora modificata negli anni a venire, l’auspicio migliore che ci si possa fare è che la pigra faciloneria, che finora in queste materie la ha fatta da padrona, venga meno in favore di una seria ed equilibrata responsabilità. Anche perché abbiamo tutti, da pochi mesi, notato che solo il rango costituzionale necessita di ampie maggioranze parlamentari per essere modificato.
Il licenziamento intimato in virtù di un presunto giustificato motivo oggettivo, vuoi perché esso rassomiglia troppo al licenziamento collettivo (dipende solo dalla quantità dei licenziati e dalle dimensioni dell’azienda), vuoi perché esso era già regolato dalla L. 604/66, fa passare per la Direzione Provinciale del Lavoro la comunicazione della necessità di procedere al licenziamento di non più di 5 dipendenti nell’arco di al massimo 120 giorni ed indicando i loro nomi (altrimenti si dovrebbero avviare le procedure per il licenziamento collettivo). La Direzione adempie ai riti del caso, valuta l’oggettività delle ragioni addotte dall’imprenditore, prova a cercare, nel termine di 20 giorni dalla convocazione del datore e del lavoratore, una soluzione alternativa al licenziamento di quest’ultimo, il datore comunicherà al lavoratore il licenziamento. Ovviamente questa procedura, stante la storia recente del ricorso all’arbitrato per contratto collettivo, sarà vantaggiosa (cosiddetta WIN-WIN) in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, poiché metterà il lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo nelle mani dell’ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) e le prospettive di efficienza a cui mostra di ambire questo nuovissimo istituto sono in grado di rasserenare il lavoratore (senza fare lui mancare le motivazioni per continuare ad aspirare ad altre posizioni lavorative, come l’Europa prescrive agli Stati membri).
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