1. Tra storia e origini.
Il volontariato in Italia, affonda le proprie radici addirittura nel medio evo, infatti è di quel periodo il sorgere di congregazioni, principalmente di estrazione religiosa, caratterizzate da un profilo di stampo solidaristico che ai giorni nostri presentano, tra quelle sopravvissute, una reviviscenza anche mediatica.
Tra queste si annoveravano, come antesignane dell’associazionismo civico e solidale, molte congregazioni il cui fine era quello di assistere i malati, del riscatto degli schiavi, soprattutto quelli caduti in mano del turco e dei pirati berberi durante le battaglie navali nel Mediterraneo e finanche quello di assistere i condannati a morte.
Sul territorio sono rimaste presenti, anche se in fase dormiente, alcune e modestamente attive altre, quest’ultime grazie alla trasmutazione delle proprie finalità (adesso sono tipicamente quelle di collegamento tra la società civile e gli aspetti religiosi tradizionali) attraverso cui sono riuscite a rinnovarsi e sopravvivere.
Questo la dice lunga sul fatto che il cittadino avverte un senso civico innato alla propria presenza su un territorio e che attraverso l’associazionismo tenta di colmare il gap esistente tra doveri dell’amministrazione pubblica e le necessità del cittadino.
All’associazionismo, come elemento catalizzante della società civile moderna e al volontariato, nel secolo scorso, quasi tutti le carte fondanti degli stati democratici e delle Organizzazioni Sovranazionali(ONU e EU) hanno dedicato una particolare attenzione, ritenendolo, un diritto del cittadino oltre ad una liberalità del sentire proprio di un appartenete alla comunità umana.
La nostra Carta Costituzionale fa rientrare la libertà di associarsi nella parte I, quella riguardante i diritti ed i doveri dei cittadini, al titolo Rapporti Civili, proprio per dare senso e concreta attuazione ai principi fondanti di una nazione affrancata da un un periodo cruento di conflitti sociali e internazionali, adeguatasi2 all’evoluzione dei tempi e alle necessità dell’uomo, anche attraverso la riformulazione dell’art. 18 avvenuta con la legge costituzionale 3/2001, ribadendo finalmente l’importanza sociale del volontariato.
Nello stesso anno in cui veniva proclamata l’entrata in vigore della Costituzione Italiana, a Parigi veniva firmata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo con cui si sanciva tra l’altro come diritto fondamentale dell’uomo la libertà di riunione e di associazione pacifica, come scelte liberali proprie dell’uomo moderno.
Anche la Comunità Europea riconosce, nel 2000, una volta consolidata la propria conformazione politica internazionale attraverso anche la sua carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, il diritto in capo ad ogni individuo ad una libertà piena di associarsi a tutti i livelli e di riunirsi per la realizzazione di fini sociali comuni.
Naturalmente di tempo ne doveva passare per far si che dai principi si giungesse alla realizzazione di una normativa che concretamente regolamentasse il settore in tutti i suoi ambiti e profili; infatti, dal 1948 bisogna aspettare il 1991 per avere finalmente una legge fondamentale per il volontariato e l’associazionismo civico.
E’ proprio con la legge quadro n. 266 dell’11.08.1991 che il legislatore tenta di dare forma e sostanza alle richieste sociali sia dei volontari che dei beneficiari ultimi della loro gratuita attività, affermando che: “La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato in quanto espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuate dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e di Bolzano e dagli enti locali.”.
Attraverso questo incipit legislativo il legislatore ha voluto segnare uno spartiacque tra un malinteso, ma necessario, volontariato chiamato a sostenere situazioni di emergenza sociale e quello consacrato come consapevolezza dei cittadini di propri diritti attraverso anche un richiamo alle pubbliche amministrazioni affinché svolgano attività incentivante dell’autonoma iniziativa degli stessi cittadini, secondo interessi di carattere generale e principi di sussidiarietà e perché no, di complementarietà.
Insomma viene così affermato il riconoscimento di una pari dignità dell’associazionismo e del volontariato nelle politiche sociali moderne.
Proprio in virtù dell’entra in vigore della legge 266/91, in Italia è stato un continuo fiorire di organizzazioni no-profit dalle variegate finalità filantropiche, il cui numero maggiore, secondo statistiche di settore, è quello delle associazioni di volontariato in ambito sanitario e dell’assistenza sociale.
Questo fenomeno in continua espansione ha fatto si che si ingenerassero sia nei rappresentanti delle associazioni che dei semplici aderenti, false aspettative e concetti del tutto diversi da quelli formulati espressamente dalla legge, motivo per cui è bene riepilogare quali sono i presupposti giuridici della materia e la regolamentazione ad essa afferente.
2. Definizione di volontariato
E’ bene chiarire, per evitare la diffusione di concetti devianti ad opera di cattivi maestri, cosa s’intende principalmente per volontariato.
E’ l’art. 2 della legge 266/91 che definisce in maniera chiara ed inequivocabile cosa si intende per attività di volontariato. Per volontariato si intende quell’attività prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Ancora, l’attività di volontariato non può essere retribuita in alcun modo ed è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro (subordinato o autonomo) e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione stessa.
L’unico rapporto di contenuto patrimoniale che può instaurarsi tra il volontario e l’organizzazione di cui fa parte non può che mirare a ristabilire l’entità del patrimonio del volontario diminuito in seguito alle spese che questo ha sostenuto per lo svolgimento dell’attività medesima.
Appare chiaro che laddove insiste un rapporto di carattere patrimoniale che snatura l’essenza stessa della definizione di associazionismo e volontariato bisogna presentare caratteri di assoluta equità e trasparenza per evitare disparità di trattamento.
Questo si realizza attraverso l’applicazione di un regolamento interno che disciplini l’istituto dei rimborsi attraverso una esatta identificazione del tipo di rimborso, della documentazione giustificativa e anche dei limiti di spesa.
Come accade nelle migliori Onlus (per esempio la Croce Rossa Italiana) ogni organizzazione di volontariato può avvalersi di professionalità esterne retribuite in funzione di quello che si ritiene necessario per l’ordinaria funzionalità della macchina organizzativa.
Appare evidente che detta attività “esterna” di natura patrimoniale è finalizzata esclusivamente al corretto e necessario svolgimento dell’attività stessa dell’associazione e non a quella primaria di natura solidale, che dovrà necessariamente, sia quantitativamente che qualitativamente, prevalente rispetto alla prima.
3. Forma giuridica dell’organizzazione
Ma che forma giuridica deve assumere un’organizzazione di volontariato per poter svolgere le finalità previste per cui si è costituita?
E’ l’art. 3 della legge 266/91 che stabilisce quale forma giuridica deve assumere una qualsiasi organizzazione di volontariato lasciando al contempo nel proprio dettato un’ampia facoltà dello strumento idoneo alla realizzazione dei propri fini statuari nell’ambito e limite della compatibilità con il principio fondante della solidarietà.
In questo quadro elastico(nella forma) e rigido(nel raggiungimento degli scopi di solidarietà) contemporaneamente si ridefinisce la possibilità che siano necessariamente escluse in primis le società di capitali anche senza fini di lucro e poi quelle di persone.
Perché questo? Perché sia le società di capitali che di persone anche se non presentano caratteristiche di lucro nascente, indirettamente, sotto la veste di un aumento retributivo o di risparmio di spesa, rilevano uno scopo di lucro, mentre di contro l’attività di volontariato necessita della condizione opposta di un’assenza di finalità lucrative anche indirette.
Dunque un’associazione di volontariato può necessariamente assumere una delle due forme previste dal codice civile e cioè quella della fattispecie di associazione riconosciuta(personalità giuridica) o non riconosciuta(personalità di fatto).
Queste due forme sono rispettivamente regolamentate la prima dal Capo II del I libro del Codice Civile(agli art. 14, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 27, 29, 30, 31, 32, 33) la seconda dal Capo III del medesimo libro(agli artt. 36, 37, 38, 40, 41, 42).
Le due forme appena descritte si sostanzializzano principalmente nel contenuto stesso dello statuto di adottato da ognuna di essa che necessariamente devono contenere:
Assenza di ogni fine di lucro;
Democraticità della struttura;
Elettività delle cariche elettive;
Gratuità delle cariche elettive;
Gratuità delle prestazioni fornite dagli aderenti;
Obblighi e diritti degli aderenti;
Criteri di ammissione ed esclusione degli aderenti;
Obbligo di formazione del bilancio(attraverso l’elencazione dei beni, spese, lasciti e);
Formalità di approvazione da parte dell’assemblea degli aderenti del bilancio;
In caso di scioglimento dell’associazione l’indicazione della devoluzione del patrimonio ad altre associazioni di volontariato rientranti nel medesimo settore.
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