La sentenza, emessa dal Tribunal Oral número 6 de Argentina e resa pubblica il 06 luglio rappresenta una nuova e ancor più dura condanna per l’ex presidente Jorge Rafael Videla, reo di aver rapito, durante l’ultima dittatura argentina, i figli dei desaparecidos.
Nel corso della sua storia politica, come è noto, l’Argentina ha assistito a numerosi colpi di stato, l’ultimo il 24 marzo del 1976, quando con il triumvirato Massera (comandante della Marina), Agosti (comandante dell’Aeronautica) e Videla (comandante dell’esercito e presidente di fatto), i militari si impossessarono del potere politico fino al 1983, insediando nel paese la dittatura più sanguinosa della storia argentina.
Per le strade non si videro i classici carri armati, non ci fu bisogno di ostentare la forza, diversamente da quanto avvenuto nel vicino Cile, all’indomani del golpe militare del generale Pinochet, quando le immagini televisive degli arresti di massa e degli oppositori ammassati negli stadi avevano fatto il giro del mondo suscitando ondate di indignazione dell’opinione pubblica mondiale. La lezione di Pinochet era servita a qualcosa, quindi, non si doveva provocare la condanna internazionale ma dare un’immagine di moderazione e legalità.
Iniziava così l’annientamento di ogni forma di opposizione e nasceva un muro di silenzio intorno ai desaparecidos. Dal momento in cui avveniva il sequestro, la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno: depositata in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi intermedi di detenzione, dove veniva sottoposta a torture infernali e lasciata all’oscuro della propria sorte, fino ai voli della morte, una vera e propria pratica di sterminio con la quale migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare vivi e sotto l’effetto di droghe da appositi aerei militari.
Con il pretesto di effettuare il processo di riorganizzazione nazionale, i militari instaurarono il terrorismo di Stato su larga scala, abrogando i diritti costituzionali, sospendendo le attività politiche e di associazione, proibendo i sindacati, i giornali, sequestrando attivisti politici e sindacalisti. Nei centri di detenzione clandestini, nei quali vengono incarcerati i detenuti illegali, si realizzava anche un perverso sistema di appropriazione dei neonati delle detenute in stato di gravidanza.
Solo nel 1977 vennero effettuati i primi atti di denuncia: grazie alla loro coraggiosa azione, le Madri di Plaza de Mayo, madri dei giovani desaparecidos, sfidando il regime con una protesta pacifica, riuscirono a far conoscere all’opinione pubblica mondiale il duplice dramma che stava avvenendo nel loro Paese.
La politica estera delle democrazie occidentali preferì privilegiare la tutela degli interessi economici presenti in Argentina a scapito della difesa dei diritti umani. Anche l’Italia, pur di mantenere i buoni rapporti con i militari al potere, a tutela degli interessi dei grandi gruppi italiani, pubblici e privati, contribuì alla politica di oscuramento voluta dai generali argentini sulla violenza in corso. In questo modo l’opinione pubblica, il popolo italiano, non avrebbe potuto riproporre quegli atteggiamenti di ripulsa che pochi anni prima costringevano all’ostracismo il Cile di Pinochet. Oggi sappiamo che la violenza di Videla fu molto superiore rispetto a quella che caratterizzò il golpe di Pinochet e che il golpe argentino, a differenza di quello cileno, fu caratterizzato da una violenza più subdola e sotterranea.
Nel dicembre 1983 il presidente Raul Alfonsìn, appena eletto, ristabilì le libertà democratiche e le garanzie costituzionali tentando, ma riuscendovi solo in parte, di far giudicare e condannare i colpevoli dei massacri e delle torture.
Con il decreto 187 del dicembre 1983 fu istituita La Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas per raccogliere le denunce e le testimonianze sulle violazioni dei diritti umani e per investigare sui desaparecidos. Tutto il materiale raccolto dalla Commissione fu trasmesso alle competenti autorità giudiziarie e grazie alle informazioni raccolte fu possibile celebrare i primi processi che porteranno alla condanna dei vertici della giunta militare. Il 9 dicembre del 1985 la Corte federale condannò Videla e Massera all’ergastolo per omicidio pluriaggravato, privazione illegale della libertà, torture e furto; l’ex generale Roberto Viola fu condannato a 17 anni di prigione per privazione illegale di libertà, tortura e furto. La Corte suprema di giustizia ratificò queste condanne ma ne ridusse le pene.
Purtroppo, le pressioni dei militari continuarono ad avere un grosso peso nella politica argentina tanto che nel 1986 fu promulgata dal Parlamento la legge del Punto Final grazie alla quale furono dichiarati estinti tutti i reati commessi da militari e poliziotti non ancora incriminati. Con la successiva legge della Obediencia Debida approvata dal Parlamento nel luglio 1987 si esentò dalla colpevolezza chi avesse torturato o ucciso eseguendo un ordine superiore e si istituzionalizzò l’impunità con la scarcerazione di tutti i responsabili, ad eccezione degli alti comandi che rimarranno in prigione fino all’indulto presidenziale del 1990 concesso dal presidente Carlos Menem che giustificò il suo atto con “la necessità di voltare pagina e dimenticare una volta per tutte gli orrori del passato”.
Il 25 maggio 2003, eletto presidente della Repubblica Argentina, Nestor Kirchner, inaugura una svolta nella triste sequela di indulti e perdoni dei suoi predecessori. A pochi giorni dal suo insediamento rimuove, sostituendoli, alcuni tra gli alti vertici militari provocando un generale scontento tra le Forze Armate. Instaura un dialogo e una profonda collaborazione con le organizzazioni delle Madres, Abuelas e Familiares dei desaparecidos e il 12 agosto 2003 il parlamento argentino sancisce la nullità delle leggi del Punto Final e dell’ Obediencia Debida grazie alle quali i criminali militari, oltre ad aver goduto dell’impunità in Argentina, erano anche riusciti ad eludere le tante richieste di estradizione dei giudici italiani e spagnoli. Inoltre Kirchner aderisce alla Convenzione delle Nazioni Unite che sancisce la non applicabilità della prescrizione ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità e presenta al parlamento un disegno di legge per rendere questa Convenzione costituzionale.
Si apre così una nuova stagione, una svolta nella giustizia argentina, culminata nella recente sentenza di cui il tribunale darà lettura dei motivi all’udienza pubblica fissata per il 17 settembre prossimo, alle ore 18.
Grazie alle prove e alle testimonianze acquisite, i giudici hanno confermato che quella posta in essere dalle giunte militari è stata una “pratica sistematica e generalizzata di sottrazione, detenzione e occultamento di minori” e non di singoli casi isolati, come ammesso dalla difesa degli accusati.
I circa 500 bambini rubati alle loro madri dopo il parto – avvenuto in quasi tutti i casi in centri clandestini di detenzione, creati dai militari per torturare ed eliminare i prigionieri catturati senza mandato giudiziario – sono da considerarsi vittime di “un piano orchestrato, in base a ordini impartiti dai vertici delle giunte militari” che governarono l’Argentina durante l’ultima dittatura.
I gruppi operativi, conosciuti come patotas, erano i commandos addetti al sequestro: quando trovavano dei bambini li portavano via e, se molto piccoli, venivano regalati o venduti a famiglie di militari o poliziotti che non potevano avere figli. In pochissimi casi lasciavano i figli ai vicini o davanti ai portoni degli orfanotrofi e degli ospedali.
La presidentessa del Tribunale, María del Carmen Roqueta, ha dichiarato che il piano di sottrazione, detenzione e occultamento di minori attuato dai militari è avvenuto “rendendo incerta, alterando o rimuovendo la loro identità, in occasione del sequestro, della prigionia, della scomparsa o della morte delle loro madri, il tutto come parte di un piano complessivo di distruzione attuato sulla popolazione civile con lo scopo di combattere la sovversione e implementando i metodi del terrorismo di stato tra il 1976 e il 1983“.
Prima di emettere le condanne, la presidentessa ha respinto le diverse richieste di nullità avanzate dagli undici accusati, tra le quali la presunta prescrizione dei reati. Il tribunale ha, infatti, sancito al punto 8) della sentenza, che “non si è dato seguito alle richieste di prescrizione penale avanzate dalla difesa in quanto i fatti giudicati sono delitti di lesa umanità implementati mediante una pratica sistematica e generalizzata di sottrazione, sequestro e occultamento di minori di età”.
Nel processo alla giunta militare celebratosi nel 1985, nulla che riguardava la sottrazione dei bambini era stato dato per certo e per 36, lunghissimi, anni le Abuelas de Plaza de Mayo e i loro nipoti, quelli identificati, hanno continuato a lottare per ottenere il riconoscimento di questo reato.
La nuova condanna a 50 anni di carcere nei confronti di Videla va a sommarsi, quindi, a quella precedente di ergastolo del 1985. Fra i condannati: Reynaldo Bignone, ultimo capo della dittatura militare argentina, succeduto dopo la guerra delle Falkland-Malvinas (1982) a Leopoldo Galtieri, è stato invece condannato a 15 anni di carcere in merito a 31 casi di sottrazione di minori e per avere ordinato la distruzione dei documenti sulla repressione; l’ex vice-ammiraglio Antonio Vañek (40 anni), l’ex capo del gruppo che lavorò alla ESMA, la Escuela de Mecánica de la Armada trasformata in lager, Jorge “el Tigre” Acosta (30 anni), Omar Riveros (20 anni), Víctor Gallo (15 anni), Juan Antonio Azic (14 anni), Jorge Magnacco (10 anni), e Inés Susana Colombo (5 anni).
Per le Nonne di Plaza de Mayo – che sino ad oggi sono riuscite a rintracciare oltre 100 bambini rubati, per restituire loro l’identità e la storia della loro vera famiglia – il verdetto del tribunale rappresenta una sentenza storica.
Alla lettura della sentenza Enriqueta Estela Barnes de Carlotto, storica presidentessa dell’associazione civile Abuelas de Plaza de Mayo ha abbracciato Francisco Madariaga, uno dei 35 bambini rubati – 25 dei quali hanno recuperato la loro identità – il cui caso è stato esaminato nel corso del processo.
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