Con la pubblicazione nella GURS della legge n. 15 del 4 agosto 2015, il completamento della riforma dell’ente intermedio in Sicilia è entrato in vigore. Dalla lettura dell’articolato emerge, ictu oculi, come si sia passati dalle Province regionali ai super Consorzi comunali.
Ai nuovi enti consortili, infatti, il legislatore siciliano non solo attribuisce tutte le precedenti funzioni prima di competenza delle soppresse Province ed elencate dalla l.r. n. 9/86, ma ne aggiunge di nuove. Pianificazione territoriale ed urbanistica, generale e di coordinamento, approvazione degli strumenti urbanistici dei Comuni, sostegno e sviluppo dei Consorzi universitari presenti nel territorio, nonché degli enti culturali già sostenuti dalle ex Province regionali. Ma vi è di più, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Regione conferirà ai Liberi Consorzi comunali ed alle Città metropolitane anche le funzioni in materia di edilizia popolare abitativa, di vigilanza sull’attività dei consorzi di bonifica e di motorizzazione civile. Altro che “svuotamento funzionale” delle Province nella prospettiva della loro espunzione dall’art. 114 della Costituzione. In sostanza, l’unica novità di questa riforma, che ha tanto il sapore della riforma bluff, è rappresentata dall’eliminazione degli organi di governo democraticamente e direttamente eletti e dall’introduzione di un sistema di governance basato sulla rappresentanza dei Comuni (Sindaci e Consiglieri comunali).
Né più, né meno, del modello di governance già sperimentato per gli ATO che tanto bene ha fatto sia alle Istituzioni che alle pubbliche risorse finanziarie. I Sindaci, quindi, che, almeno in Sicilia, hanno più volte dimostrato di non avere la cultura della gestione associata, frazionata ed integrata dei servizi pubblici locali, saranno chiamati a governare anche i nuovi enti intermedi. Ora, tralasciando in questa fase i profili di incostituzionalità che emergono e che certamente saranno vagliati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ci si chiede a cosa sia servita questa riforma se il risultato doveva essere sovvertito rispetto non solo alle aspettative dell’opinione pubblica ma anche ai principi ordinamentali e di coordinamento della finanza pubblica contenuti nella legge statale Delrio.
Se l’assillo era quello di ridurre i soli costi della politica riconducibili ai compensi spettanti alle cariche elettive (Presidente di Provincia, Assessori e Consiglieri), ben poteva il legislatore siciliano ridurre “a simbolici” i connessi compensi senza minare alle fondamenta i principi democratici che sottendono il rapporto tra comunità locale e rappresentanza di governo (no taxation without representation). L’illuminato legislatore siciliano ha invece consegnato ai siciliani un grande bluff, eliminando solo i presìdi di democrazia e potenziando all’inverosimile di funzioni amministrative un ente intermedio di cui tutti, compreso il Parlamento centrale, si aspettavano la sua eliminazione nel rispetto di quanto previsto dall’art. 15 dello Statuto siciliano. I Liberi Consorzi di comuni previsti dallo Statuto, a differenza di quanto fatto, sono strutture leggere e strumentali dei Comuni per il libero ed autonomo esercizio associato di una o più funzioni amministrative.
Obbligare i Comuni ad entrare (ovvero a rimanere) in un Consorzio di Comuni per l’esercizio di individuate funzioni amministrative si configura come una “camicia di forza istituzionale” alla stregua dei Consorzi obbligatori per la gestione dei servizi idrici e dei rifiuti e, come tale, non conforme allo spirito dei Liberi Consorzi di comuni coniato dallo Statuto siciliano.
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