A) Incominciamo dal referendum sulla privatizzazione del servizio (scheda rossa, referendum n. 1).
S’intende abrogare l’art. 23-bis d.l. n. 112/2008, introdotto dalla legge di conversione n. 133/2008, e poi rimaneggiato più volte, sino al d.l. n. 135/2009. Tale articolo è stato pure annullato dalla sentenza n. 325/2010 della Corte Costituzionale in una parte marginale, della quale qui si può fare a meno di trattare.
La principale novità introdotta dall’art. 23-bis è che la gestione dei servizi pubblici locali (non solo quello di distribuzione dell’acqua, quindi) deve essere affidata solo in due modi: – a società o imprese private, scelte con gare; – a società miste pubbliche-private, dove però i privati devono partecipare alla gestione (cioè non limitarsi al finanziamento della società) e devono avere una partecipazione azionaria almeno del 40 per cento.
L’art. 23-bis ha abrogato la precedente disciplina in materia, contenuta nell’art. 113 d. lgs. n. 267/2000 (testo unico sugli enti locali). L’art. 113 ammetteva una terza forma di affidamento: a società interamente partecipate dall’ente locale, e da questo controllate integralmente anche nella gestione.
La novità dell’art. 23-bis sta appunto nell’avere escluso la legittimità dell’affidamento del servizio a società interamente pubbliche. In verità l’art. 23-bis ammette al comma 3 una deroga all’affidamento “privatistico”, ma in via eccezionale, dovendo ricorrere una serie di condizioni così restrittive, che in pratica molto difficilmente si avvereranno.
Il senso politico più generale dell’art. 23-bis si coglie, se si considera che tale normativa non è una conseguenza della normativa comunitaria in materia, ma è il frutto di una scelta specifica dello Stato italiano (o meglio della maggioranza parlamentare che convertì il decreto legge). La normativa comunitaria, infatti, non impone la privatizzazione dei servizi pubblici locali ad ogni costo, ma consente agli Stati membri di mantenere la gestione pubblica di essi, qualora quella privata ostacoli, in diritto od in fatto, la speciale missione dell’ente pubblico (ovviamente ciò va dimostrato dallo Stato). Inoltre la normativa comunitaria non impone una soglia minima di partecipazione dei privati nelle società miste.
Insomma, mediante l’art. 23-bis, lo Stato italiano ha assunto in sede europea un ruolo di “primo della classe”, campione della prevalenza del privato sul pubblico, ritenendo il primo comunque più efficiente del secondo. In coerenza con tale impianto, le norme transitorie dell’art. 23-bis prevedono la progressiva estinzione delle gestioni pubbliche dei servizi, attualmente operanti.
Se il referendum avrà successo, sarà eliminato l’intero art. 23-bis, pertanto rivivrà l’art. 113 d. lgs. n. 267/2000. In questo modo, resteranno attivi gli affidamenti del servizio a società pubbliche, secondo la loro scadenza naturale.
Cosa più importante, gli enti locali saranno liberi di scegliere il modo di affidamento dal servizio: a privati, a società miste (senza limiti minimi di partecipazione dei privati) oppure a società pubbliche.
Il senso politico di questo referendum, pertanto, sarà di affermare che la gestione pubblica dei servizi ha ancora un ruolo positivo per l’interesse dei cittadini: dunque un senso opposto rispetto all’idea – predominante in modo generalizzato ormai da qualche decennio sulla scena politica – che “privato è meglio”.
B) Veniamo all’altro referendum, sulla tariffa per l’erogazione del servizio idrico (scheda gialla, referendum n. 2).
Si chiede l’abrogazione di una piccola espressione contenuta nell’art. 154, comma 1, d. lgs. n. 152/2006 (codice dell’ambiente). L’espressione è “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Essa è inserita, come detto, nel comma 1, che si occupa del modo in cui la tariffa deve essere calcolata.
Secondo la norma, la tariffa deve tenere conto, tra l’altro, della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere e, appunto, della remunerazione del capitale investito. Tale espressione è stata chiaramente inserita per suscitare l’interesse degli imprenditori privati ad assumere la gestione del servizio, attribuendo loro una remunerazione ulteriore, rispetto alla copertura dei costi.
Se il referendum avrà successo, l’importo della tariffa non potrà più tenere conto di tale remunerazione, ma solo della copertura dei costi.
Il senso politico di questo referendum sarà lo stesso dell’altro, di cui costituisce un complemento: la riaffermazione dell’utilità sociale della gestione pubblica dei servizi, che prevale sul lucro che si può trarre da un’iniziativa imprenditoriale.
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