Grillo, Bindi e Bersani: la vera indecenza è il rischio di cose già viste

Lo dico prima cosi, poi, magari qualcuno evita (ma anche no, sono sempre stato un fautore del contradditorio anche feroce, se aumenta il livello dell’interesse e della discussione) di accusarmi di partigianeria. Beppe Grillo mi è sempre stato simpatico, ho visto addirittura 4 suoi spettacoli (due a Rimini e due a Pesaro) molto prima che “scendesse in campo” e tutte le volte sono tornato a casa con un mix tra il divertito, l’incazzato e il fatalista.

Non so perché, ma la sensazione che un comico potesse dire delle cose talmente ovvie e serie da meritarsi più applausi per quelle, seppur canzonate, che per delle battute ‘da comico’ – ambiente maltrattato, stipendi assurdi dei politici, mafia e Stato, lentezza della PA, stampa partitica, poca conoscenza di internet – mi lasciava quasi inebetito, incapace di sopportare il peso di noi italiani. Tutti bravi a parlare, a lamentarci, ma mai veramente capaci di andare fino in fondo, figli di un’abitudine ‘media’ alla mediocrità che ritengo il nostro vero limite perché, quando poi ce ne accorgiamo, dipingiamo la Cappella Sistina e scriviamo la Divina Commedia lasciando che gli altri si beatifichino per il Grand Canyon o l’Ayers Rock, tutto merito della natura e non del ‘dove’ codeste bellezze sorgono.

Sto divagando? Si, ma arrivo subito al punto. Beppe Grillo, che prima tentava di aprirci gli occhi il sabato sera coi pop corn e la birra a farci compagnia, e poi quasi per scherzo, probabilmente fomentato da diversi giovani a lui dediti, dal blog è passato alle piazze fino ad ottenere un consenso denominato dai più “voto di protesta”, adesso ha una responsabilità ben diversa. Ora che gli uomini nuovi della politica italiana sono lui (o chi per lui ma da lui creato), Matteo Renzi da Firenze (uno che scrive due righe su Facebook e dopo un quarto d’ora ha già 876 mi piace è evidentemente ben introdotto nell’era del 2.0) e Berlusconi da Arcore, qualsiasi cosa dica non è più passibile di comicità – per chi non lo comprende – ma è solo cronaca, solo storia. Lo è anche questa diatriba sui matrimoni gay e su Rosy Bindi, francamente bersaglio sin troppo facile per tacciarla di “scarsa conoscenza sessuale”.

Dopo essersi dichiarato favorevole ai matrimoni tra persone delle stesso sesso (“ognuno deve poter vivere la propria vita con lui o lei tutelato dalla legge”), il genovese ha stilettato duro il Pd che, su un argomento storicamente di sinistra (non per come lo intendo io, ma per come lo intende la collettività), non sembra allineato come poi non lo è quasi su nulla. “La Bindi, che problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti, ha negato persino la presentazione di un documento sull’unione civile tra gay. Vade retro Satana. Niente sesso, siamo pidimenoellini”, l’invettiva di Grillo, che ha concluso in sentenza finale. “Una Bindi, un Bersani, un Rutelli. Quanti sono gay nel pdmenoelle e non lo dichiarano? Fate outing, vi farà bene. Fa schifo negare diritti sacrosanti per un pugno di voti”.

Apriti cielo, chiamate il 118, le Nazioni Unite, si indica un’interrogazione parlamentare. Di tutto e di più, in pieno stile “italiota”: con Pierluigi Bersani in difesa strenua della collega e della donna (“tratti di squallore che non appartengono al dibattito politico e ricorda il peggior conservatorismo maschilista di una certa Italietta. Se si parla così si è avanti solo negli insulti”) mentre Maurizio Ferrara, su Twitter, dispensava perle di saggezza a modo suo (“la dichiarazione da puttaniere su Rosy Bindi dimostra che Grillo ha un pisello piccolissimo”). Di fatto, siamo tornati all’insulto del membro maschile per difendere quello femminile (era quasi meglio Bossi quando disquisiva sulla mera consistenza) ma soprattutto non ci siamo resi conto che un argomento così delicato, in Italia, non si può proprio toccare.

Il vero problema è che Grillo si sente ancora un comico, semplicemente perché lo è: non lo ha mai negato, non lo ha mai taciuto, ma forse non se lo può più permettere. Il fatto che i suoi cabaret si tengano a reti unificate non stravolge la sensazione che sia lui, l’alternativa alla quale la nuova generazione si vorrebbe aggrappare per sperare in un futuro “diverso” da quello che scorgono, o magari che scorgiamo, adesso. Da questa vita monocolore. Per cui, se pur continui a starmi simpatico, spero non rischi di diventare per tutti solo una “protesta di due ore”, un “vaffa collettivo”, un “insulto balotelliano”. Non per una questione politica, ma per una culturale e, appunto, generazionale.

La rete, come la considera lui, deve servire a informare, ad aprire gli occhi, a creare nuovi posti di lavoro. Non a prendersi due applausi sfruttando le debolezze altrui.

Lo abbiamo già visto, non ne abbiamo più bisogno.

 

Matteo Peppucci

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