Esecutivo di scopo, mandato esplorativo, fiducia a tempo: in questi giorni le possibili evoluzioni del quadro post-elettorale hanno occupato pagine e pagine dei quotidiani, con eminenti costituzionalisti a rincorrersi nel misurare i margini di manovra tra il Quirinale e palazzo Chigi.
A quanto pare, il Presidente della Repubblica non ha alcuna intenzione di riportare il Paese alle urne e quindi c’è da immaginare che una soluzione, per quanto esile e rattoppata, alla fine si troverà. Resta da capire chi sarà il depositario dell’incarico che Napolitano deciderà di affidare, in particolare se si tratterà di un politico o di un tecnico super partes.
Il principale indiziato, allo stato attuale, resta ancora Pier Luigi Bersani che si recherà al Colle per ultimo, chiedendo ufficialmente il mandato di provare a formare un governo, nonostante lo sfavore del MoVimento 5 Stelle e l’indisponibilità del Pd a scendere a patti con Berlusconi.
A ben vedere, però, esiste un precedente storico da cui il segretario del Partito democratico potrebbe prendere spunto: il famoso governo della “non sfiducia”, guidato da Giulio Andreotti, che restò in carica per quasi due anni dal luglio 1976 al gennaio 1978.
Allora, le analogie con la fase attuale non mancavano: un partito antisistema, il Pci, raggiunse il suo massimo storico, il 34,4%, ma senza riuscire a sbancare, superando la Dc come in molti paventavano. D’altro canto, il vantaggio uscito dalle urne per la Democrazia cristiana era talmente esiguo da non consentire la formazione di una maggioranza stabile in Parlamento, anche con l’appoggio dei piccoli alleati che, in precedenza, avevano garantito di blindare più di un governo alla “Balena bianca”.
Sul fronte sociale, le tribolazioni del Paese erano indubbiamente significative come lo sono oggi: allora, si era nel pieno degli Anni di Piombo, della violenza ideologica, delle manifestazioni e delle bombe del terrorismo, mentre oggi il sangue è quello silenzioso di imprenditori e lavoratori che non reggono alla crisi economica e scelgono di farla finita.
Insomma, anche allora, al pari di oggi, si avvertiva l’urgenza di dare una guida al Paese, proprio come Napolitano sembra orientato a realizzare nonostante le oggettive difficoltà. Nel 1976, però, dopo il muro contro muro in campagna elettorale, far digerire all’opinione pubblica un governo di arco costituzionale con a braccetto Dc e Pci era un’operazione rischiosa, che minacciava di acutizzare le tensioni già fortissime nel Paese.
Così, a dipanare la matassa arrivò l’immancabile Divo Giulio, che venne nominato per la terza volta presidente del Consiglio e riuscì a imbastire una squadra di governo composta solo da appartenenti all’area democristiana (tra i ministri figuravano Forlani e Cossiga). L’esperimento funzionò e l’esecutivo rimase in sella per 18 mesi nonostante i numeri in Parlamento non consentissero autosufficienza nel votare i provvedimenti.
Come fu possibile tutto ciò? Grazie all’astensione di vari partiti come i social-democratici, i repubblicani, i socialisti e i liberali, ma soprattutto, del Pci. Al momento della fiducia, i non voti superarono numericamente i pareri favorevoli, ma l’esecutivo riuscì a tirare dritto in un momento delicatissimo della storia del Paese grazie alla capacità di leader come Enrico Berlinguer e Aldo Moro, mentre, nel Psi, il craxismo era ancora agli albori.
Oggi, immaginare una concordia che da Sel arrivi fino alla Lega Nord, passando per Pdl e MoVimento 5 Stelle, sarebbe uno sforzo di fantasia davvero notevole. Ma se, come sembra, domani Napolitano affidasse a Pier Luigi Bersani il tentativo di sondare il Parlamento, non è escluso che il partito di Beppe Grillo infine scelga per il non voto al Senato, che, alla Camera alta, significherebbe l’uscita dall’aula (lì l’astensione equivale a voto contrario). Una volta entrato in carica il governo, poi, la “non sfiducia” potrebbe mutare in un appoggio esterno sui singoli interventi, alla stregua del “modello Crocetta”.
Certo, appellarsi agli anni più bui della prima Repubblica per uscire dall’attuale impasse istituzionale non rappresenta il miglior viatico ma se, davvero, si vuole evitare che il Paese finisca travolto dallo tsunami delle speculazioni finanziarie, accollandosi magari altri 400 milioni di costo per le nuove elezioni, l’esempio del governo Andreotti III potrebbe improvvisamente tornare d’attualità.
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