L’editoriale di Sabino Cassese “Una burocrazia del merito che può limitare la politica” pubblicato sul Corriere della sera del 14 agosto merita particolare segnalazione.
Non poteva che essere un inno alla legge delega di riforma della PA, la legge 124/2015. Cassese mette in rilievo che la legge “Riguarda l’assetto centrale dello Stato, la sua distribuzione sul territorio, gli enti periferici, i processi di decisione e le semplificazioni, la prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, le conferenze dei servizi, le forze di polizia, l’ordinamento sportivo, gli enti di ri cerca, le società pubbliche, i servizi pubblici locali, i concorsi pubblici, il codice dell’amministrazione digitale. Ridefinisce i confini tra pubblico e privato. Mira a trasformare un’amministrazione corporativa, poco efficace, troppo legata ai politici di passaggio, in una struttura sensibile agli impulsi della politica e alle esigenze della collettività, ma non dipendente dai politici. Lo stato degli edifici scolastici, il tempo di una licenza, le condizioni delle nostre città, il costo dei servizi, l’adempimento degli obblighi tributari, la bontà del servizio sanitario, dipenderanno, nei prossimi anni, dal successo di questa riforma”.
Bisognerà vedere, ovviamente, contenuti e qualità dei decreti legislativi attuativi. Tuttavia, già il semplice fatto che i temi ricordati dal Cassese siano quelli che si ripetono da anni e che sono regolarmente oggetto di grandi ed epocali riforme che mirano “a trasformare un’amministrazione corporativa, poco efficace, troppo legata ai politici di passaggio, in una struttura sensibile agli impulsi della politica e alle esigenze della collettività, ma non dipendente dai politici”, non lascia ben sperare. Non è questo, tuttavia, il punto focale dell’analisi dell’ex componente della Corte costituzionale.
Centro del ragionamento di Cassese è la riforma della dirigenza pubblica. E’ fondamentale, secondo l’Autore, creare “una burocrazia indipendente e preparata, non scelta dai membri del corpo politico tra i propri fedeli”, che sia “capace di condizionare il politico di turno, ricordandogli i suoi limiti, e di mettere finalmente in sintonia lo Stato con la società”.
Non si può, ovviamente, non concordare col fine enunciato dall’editoriale. Al tempo stesso, non si deve rinunciare ad evidenziare che la legge 124/2015 va esattamente nella direzione opposta.
Intanto, nel momento in cui il Cassese esalta la potenzialità della legge 124/2015 di creare una burocrazia indipendente e capace di limitare l’apparato politico, indirettamente autocertifica il fallimento delle riforme della pubblica amministrazione di questi 20 anni. Riforme delle quali Cassese è stato il primogenitore col d.lgs 29/1993 e, costantemente, l’ispiratore. Se, dunque, vi sono dirigenti e burocrati scelti “dai membri del corpo politico tra i propri fedeli”, Cassese dovrebbe recitare il mea culpa e non porsi sul piedistallo, a trinciare giudizi su una riforma che esalta perché correggerebbe i vizi gravissimi delle riforme da egli stesso volute e realizzate.
Il problema, però, è che l’esaltazione della legge 124/2015 da parte di Cassese appare un’opera di mera propaganda, finalizzata a lasciar passare il messaggio di una decisiva svolta della dirigenza pubblica verso l’efficienza, il merito e l’indipendenza, mentre, al contrario, la riforma Madia è solo ed esclusivamente lo strumento col quale la politica cerca di impossessarsi definitivamente della dirigenza, costituendone la definitiva politicizzazione.
Seguiamo i ragionamenti di Cassese: “Le chiavi di volta di questo ambizioso disegno sono le tre Commissioni autonome per le tre categorie della dirigenza unificata (Stato, Regioni ed enti locali) e il nuovo assetto della Scuola dell’amministrazione. Da queste dipende la possibilità di costruire una classe di amministratori pubblici scelti sulla base dei loro talenti, indipendenti e imparziali. Le tre Commissioni dovranno, da un lato, immettere i vincitori del corso-concorso nell’amministrazione, dall’altro tenere sotto controllo il conferimento degli incarichi ai dirigenti, da parte dei corpi politici. È un compito enorme, diretto sia a migliorare la dirigenza amministrativa selezionando i capaci e meritevoli, sia a far rispettare dalla politica i principi cardine dell’accesso aperto, della concorrenza e del merito, oltre che della definizione preventiva dei requisiti dei dirigenti”.
Cassese descrive il compito delle Commissioni come si trattasse:
a) della selezione dei dirigenti da incaricare;
b) del controllo sulle scelte degli incarichi o delle revoche degli incarichi, da parte degli organi di governo.
La realtà è completamente diversa. In relazione al conferimento degli incarichi dirigenziali, gli atti necessari per immettere realmente in servizio i dirigenti e metterli in condizione di lavorare, le Commissioni non hanno compiti “selettivi”, cioè di porre in essere una procedura finalizzata a redigere una graduatoria che obblighi l’ente ed il suo vertice politico a rispettarne l’ordine per l’assegnazione degli incarichi. Le Commissioni si limiteranno a compiti “preselettivi”. La legge 124/2015 non specifica il dettaglio delle modalità, ma è facilmente intuibile che il compito delle Commissioni sarà di trarre dalle candidature che i dirigenti inseriti nei ruoli invieranno a seguito della pubblicazione di incarichi da ricoprire alcune “rose” di candidati. Senza, dunque, compilare graduatorie, senza vincolare la scelta degli organi politici.
E’ qui che il meccanismo della legge 124/2015, esattamente all’opposto di quanto afferma il Cassese, assegna alla politica un potere immenso e mette la dirigenza sotto il suo giogo. Infatti, la scelta nell’ambito delle “rose” spetterà in via totalmente autonoma, ai limiti dell’arbitrario, all’organo di governo.
Una vera manna per un sistema che nelle “nomine” e nelle “investiture” dei politici a terzi vede lo scettro del vero potere.
Nell’attuale sistema, senza i ruoli unici, si accede alla dirigenza per concorso. Dunque, è l’esito del concorso, la sua graduatoria, a determinare la scelta del dirigente da assumere e a condizionare il successivo conferimento dell’incarico da parte dell’organo di governo.
Col nuovo sistema, i concorsi serviranno sostanzialmente come mera abilitazione ad entrare nei ruoli dirigenziali. La scelta dei dirigenti da incaricare sarà solo limitata dalla costituzione delle “rose”, entro le quali, poi, la politica avrà ampia libertà di scegliere.
Cassese, proseguendo nel suo ragionamento, evidenzia una verità inconfutabile: “La scelta dei componenti delle tre Commissioni sarà un banco di prova per il governo. Dovranno essere nominate persone autonome, indipendenti e «terze», non politici o sindacalisti. Lì si misurerà la lungimiranza dell’esecutivo e la sua capacità di spogliarsi della veste di parte nell’interesse del Paese”.
E’ certamente vero. Nel momento in cui non saranno più i concorsi gli strumenti selettivi per l’immissione in servizio dei dirigenti, ma le preselezioni delle Commissioni, il loro ruolo diventa strategico.
Alzi la mano, però, chi ha contezza di organismi formati da soggetti nominati dal governo o, comunque, dalla politica che, pur essendo qualificati come “indipendenti”, siano effettivamente stati composti da personaggi davvero estranei ai partiti e alle correnti politiche, autonomi, indipendenti e terzi. Vogliamo fare l’esempio del consiglio di amministrazione della Rai? Perfino un’authority come l’Anac, dotata di estrema autonomia, vede alla sua presidenza un personaggio di indiscutibile professionalità e qualificazione, che però non fa mancare giorno senza riaffermare la sua piena e totale condivisione ad ogni atto, sospiro e pensiero del governo.
Le Commissioni sono strategiche, sì, ma per un fine completamente diverso da quello enunciato da Cassese: sono perfettamente funzionali alla “verticalizzazione del potere”, da ultimo enunciata da Michele Ainis come uno degli effetti molto chiari anche della legge 124/2015.
Poniamo un esempio. Come detto prima, nell’attuale sistema i dirigenti sono selezionati mediante concorsi, gestiti autonomamente da ciascun ente. I 2000 comuni circa nei quali sia presente la dirigenza, dunque, hanno fin qui selezionato i dirigenti sulla base di concorsi da essi gestiti: i sindaci, dunque, si sono visti arrivare dirigenti selezionati dalle commissioni di concorso, dirigenti provenienti da ogni territorio e valutati esclusivamente in relazione alle competenze dimostrate nella prova concorsuale. La scelta, poi, dei dirigenti cui conferire gli incarichi non può che essere limitata alla dotazione organica dei dirigenti di quell’ente.
La riforma scardina questo sistema razionale. I dirigenti non dipenderanno più dal singolo ente ma da una realtà ancora da precisare, diciamo, per comodità, dai ruoli unici. I sindaci non sceglieranno più i dirigenti tra i componenti della dotazione organica (persone, dunque, teoricamente ben conosciute e selezionabili con cognizione di causa), ma dovranno rivolgersi ai ruoli, che emetteranno gli avvisi pubblici per il conferimento degli incarichi dirigenziali, destinati ad essere filtrati dalle Commissioni di cui sopra.
Come si vede, il sindaco per un verso guadagna la possibilità di scegliere i dirigenti ad libitum, senza i vincoli della graduatoria concorsuale, ma avrà un interlocutore lontano e “Roma-centrico”, la Commissione, espressione del Governo. Inutile suscitare illusioni o ipocrisie: è chiaro che quando scattano meccanismi di “nomina” o “coferimento di incarichi” la politica attiva immediatamente il proprio Dna e cerca di condizionare gli esiti. I sindaci, però, per provare ad avere un risultato “gradito” dal lavoro delle Commissioni dovranno, per avvicinarle, rivolgersi ai vertici romani del Governo di turno e lì trattare e negoziare. Ecco la verticalizzazione ed ecco l’ulteriore traccia della politicizzazione della dirigenza.
Il gioco, però, potrebbe valere la candela. Mentre i concorsi, infatti, obbligano i sindaci (proseguendo nell’esempio) ad assumere il vincitore qualsiasi sia la sua provenienza, con i meccanismi di “negoziazione” un sindaco orientato ad assumere un dirigente che abbia quella data provenienza di quella regione, se non di quella provincia (ma esisteranno ancora?) o di quel comune, basterà che ottenga dalla Commissione semplicemente l’inserimento di almeno un dirigente avente tali caratteristiche nella “rosa”. Il resto, poi, sarà cosa molto semplice. Il tutto, nell’apparenza dell’estrema correttezza, della trasparenza, della selettività, della valorizzazione del “merito”.
E le funzioni di “controllo” delle Commissioni? Praticamente nulle. Si tratterà semplicemente una sorta di monitoraggio ex post in merito al rispetto dei criteri e dei requisiti che saranno successivamente definiti dai decreti legislativi attuativi della legge 124/2015. In realtà le Commissioni, dunque, non controlleranno nulla, né tanto meno avranno poteri di ingerenza o di revisione sulle scelte operate.
Non vi sarà, dunque, nessuna garanzia che la “negoziazione” politica orienti l’operato delle Commissioni, né che esse risultino davvero indipendenti e terze.
Del resto, la legge 124/2015 nemmeno vincola gli organi di governo ad utilizzare i ruoli (e dunque l’attività delle Commissioni) per incaricare la dirigenza. Non sfugga che la legge delega prevede, in relazione agli incarichi, la mera “possibilità di conferire gli incarichi ai dirigenti appartenenti a ciascuno dei tre ruoli”. Dunque, non è per nulla detto che per ciascuno dei dirigenti inseriti nel ruolo vi sarà un incarico dirigenziale in un rapporto di 1/1. Non a caso, la legge 124/2015 contempla espressamente l’ipotesi che dirigenti restino privi di incarico a languire, pagati, nei ruoli, in attesa di ottenere un incarico.
La politica, dunque, non solo, sia pure con complesse negoziazioni verticistiche, acquisisce l’enorme potere di orientare la selezione “meritocratica”, ma si riserva il potere ancora più grande di condizionare, poi, i dirigenti attraverso la concreta minaccia di lasciarli senza incarico.
Inoltre, la legge 124/2015 abbina la mera “possibilità” di incaricare i dirigenti di ruolo, col mantenimento della facoltà per la politica di incaricare dirigenti “a contratto” al di fuori dei ruoli, senza selezione, “rose”, procedure e negoziazioni, ma direttamente. Esattamente con quella caratterizzazione di “fedeltà” alla politica, che secondo Cassese la legge 124/2015 eliminerebbe.
Come si dimostra, la realtà è lontana anni luce dalla rappresentazione che ne dà Cassese. Se l’obiettivo della riforma fosse davvero una burocrazia autonoma dalla politica, forte, non fidelizzata, ma al servizio delle scelte politiche con competenza e responsabilità, i meccanismi da essa disposti avrebbero dovuto essere totalmente diversi. O quanto meno, evitare che nella PA continuino ad operare gli Odevaine o gli Incalza, esempi di quella dirigenza di espressione partitica che poi si trasforma in scheggia impazzita, selezionata non per concorso e, dunque, tra i ruoli, bensì con gli incarichi a contratto. La legge 124/2015 avrebbe potuto dare una svolta almeno proponendosi di scongiurare il perpetuarsi di incarichi dirigenziali agli Incalza.
Di questo, invece, come visto, non v’è traccia. Con buona pace di Cassese, la legge 124/2015 crea una burocrazia che di “merito” avrà ben poco e totalmente asservita alla politica.
Luigi Oliveri
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