Una pronuncia che nel paese del sole, della pizza e soprattutto della mamma (la mitica mamma italiana!) può fare specie.
La sentenza giunge però molto a proposito per segnare un punto fermo rispetto alla riflessione che si è aperta tra gli addetti ai lavori, giuristi psicologi ed assistenti sociali, a vario titolo coinvolti nelle controversie familiari, su cosa sia la capacità genitoriale.
In un paese di bamboccioni protetti dalla famiglia (e mantenuti) fino a tarda età (vedasi in proposito il rapporto del Censis 2010 che evidenzia come non sia il lavoro a mancare ai nostri giovani ma il lavoro “sotto casa” comodo come orari e mansioni e con ottimo stipendio) è infatti necessario dare dei contenuti concreti al quel dovere “istruire, mantenere ed educare la prole tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli” enunciato dall’articolo 147 del codice civile.
Per molti anni infatti la capacità genitoriale si è misurata, nel sentire comune ma soprattutto nei tribunali -attraverso le perizie psicologiche sulla capacità genitoriale- solo in base alla capacità affettiva dei genitori (come dire che la capacità genitoriale veniva misurata in quantità ed intensità di baci ed abbracci) dimenticando totalmente tutte le altre caratteristiche di un buon genitore.
Da alcuni anni, anche a fronte dei danni, sui singoli e per la intera società, di una approccio genitoriale tutto basato sulla soddisfazione dei desideri (e dei capricci) dei bambini, nonché del narcisismo dei genitori, si è iniziata una riflessione più approfondita, in collaborazione con gli psicologi forensi ed i servizi socio assistenziali, su quali siano gli elementi che caratterizzano un buon genitore.
Si sono così enucleati alcuni punti irrinunciabili che sono:
a) Garantire al minore cura e protezione
Ciò significa saper creare un legame affettivo con il figlio tale da dargli spazio, calore e fiducia e da consentirgli, grazie alla certezza di avere nei genitori una “base sicura”, di stabilire buoni rapporti – non improntati alla sfiducia e al bisogno di colmare a tutti i costi un vuoto affettivo – con l’ambiente circostante nelle varie fasi di crescita e nelle diverse esperienze di vita.
b) Fare acquisire al bambino il senso del limite
Questo implica l’assunzione, da parte dei genitori, di una funzione normativa che esuli da valenze amicali nel rapporto con i figli e richiede la capacità di porre e far rispettare delle regole, il che consente al bambino di elaborare il fatto che il suo desiderio non costituisce una norma assoluta, cui tutti gli altri devono sottomettersi, ma incontra necessariamente un limite nel momento in cui entra in relazione con altri desideri, nella fattispecie quelli dei genitori, in un gioco di rimandi e in una relazione dialettica che lo costringe a prendere in conto l’alterità e a confrontarsi con la complessità del reale.
c) Capacità di negoziare conflitti e divergenze
Si è osservato infatti che sostenere la capacità di elaborare i conflitti, in un ambiente familiare affettivamente ricco che li assume e li media come elementi inevitabili in ambito educativo, in una dinamica dialogica in grado di affrontare le divergenze senza farsene travolgere, significa mettere le divergenze al servizio di una crescita sana e vitale, della strutturazione della personalità e della maturazione psicologica, permettendo di elaborare adeguatamente l’aggressività, di interrogarsi sulle proprie (e altrui) pulsioni, di sperimentare tentativi di mediazione che consentano di mettere alla prova e di valutare adeguatamente le proprie (e altrui) reazioni.
d) Favorire il senso di appartenenza che sostiene l’autonomia
Ed infatti trasmettere l’appartenenza e consentire l’accesso alle proprie origini vuol dire riconoscere e legittimare i figli come figli di quei genitori; ma è anche di più: è farli sentire parte di una storia che si radica nelle generazioni, (ecco perché la legge sul’affido condiviso insiste per la frequentazione con i rami genitoriali materno e paterno) garantendo quel senso di continuità e di stabilità che consente loro di assumere, in determinati momenti e di fronte a determinate situazioni, una posizione propria ed autonoma non inficiata dal timore di essere respinto o abbandonato da coloro che costituiscono le sue radici, proprio perché il legame con tali radici è sentito come forte e sicuro.
Ed infine, si è sottolineato come sia fondamentale che il genitore sia in grado di:
e) Favorire lo svincolo del figlio dalla famiglia favorendo la sua autonomia
Questa funzione è per l’appunto particolarmente importante in un contesto sociale che vede incrementarsi il fenomeno della cosiddetta “adolescenza prolungata”, caratterizzata dalla difficoltà di assumere le responsabilità proprie della vita adulta (sia in ambito lavorativo sia in ambito affettivo-relazionale) e di strutturare e realizzare un progetto di vita nella consapevolezza di “doversela/potersela cavare” da soli, pur potendo contare sull’affetto e sull’appoggio morale dei genitori che tuttavia non si configura né come un “parare le spalle” di fronte alle difficoltà né come l’opposizione, da parte dei genitori stessi, alla necessità di un distacco dai figli sentito come eccessivamente doloroso (come probabilmente per la mamma condannata).
Alla luce di questa necessariamente breve e schematica disamina la sentenza della Cassazione appare quindi particolarmente significativa perché riconosce che la iperprotettività materna getta le basi per una mancata autonomizzazione del figlio che quindi, anziché essere educato con lo scopo di diventare un individuo responsabile, maturo ed utile per la società, viene costretto a restare un eterno bambino per la soddisfazione della sua mamma.
Un solo rammarico: che questa decisione sia stata presa dal giudice penale e che i giudici delle separazioni e dei divorzi spesso ignorino che la capacità genitoriale non si misura solo in quantità di affetto.
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