Questa la frase che sintetizza la dottrina di cui è intriso il manifesto: “Siamo consapevoli – e ce lo ha ricordato lo stesso Premier – che le responsabilità di questa situazione sono di un’altra generazione: quella alla quale appartiene buona parte della classe dirigente che negli ultimi venti anni ha guidato questo Paese.” Da qui, parte tutto lo sfogo dei 30-40enni, un bacino di indignati di dieci milioni di persone che la piattaforma sbatte in faccia a una classe dirigente incapace della necessaria lungimiranza nelle scelte di politica economica, sociale e redistributiva. Più volte, infatti, anche in epoca recente si è inneggiato a un fantomatico “patto generazionale” che puntualmente non è stato sancito, facendo pendere la bilancia sepre dalla stessa parte anagrafica.
Parte da qui, dunque, la classica ritorsione dei figli contro i padri in salsa puramente post-sessantottina? Tanto per cominciare, l’iniziativa, allo stato attuale, ha il classico dna delle campagna social degli ultimi tempi: per aderire, infatti, viene specificato dai promotori, si può firmare telematicamente, mettere il fatidico “Mi piace” o ricorrere al più raffinato hashtag: che si cinguetti o si alzi il pollice, insomma, quel che conta è sposare la causa e, soprattutto, condividerla. Talmente dominante il carattere “2.0” della battaglia, che gli assunti ideali attorno a cui ruota il progetto vengono chiamati esplicitamente “tag“: le parole rispetto, merito, impegno, progetto, fiducia. Un ricorso quasi esagerato al lessico e al sentire social, quasi come se i “non più tanto giovani” dicessero ai loro vecchi: facciamo leva sulle risorse che voi non siete riusciti a depredare, per riversarvi addosso un ciclone da cui non riuscirete a restare immuni, non disponendo degli strumenti e delle conoscenze per contrastarlo.
Il tema, sia chiaro, non è nuovo al dibattito e, anzi, da qualche tempo è tra i terreni di scontro più ricorrenti e polemici su cui si affrontano le forze politiche. A calvalcare il dogma del ricambio generazionale è sicuramente la proposta politica di Matteo Renzi, sindaco di Firenze e annunciato sfidante di Pierluigi Bersani per le future primarie del Partito democratico. A ben vedere, anzi, lo scontro anagrafico è proprio il cuore pulsante della proposta politica di Matteo Renzi, e forse il suo miglior asso nella manica che gli sta attirando non poche simpatie anche da chi non si riconosce idealmente come elettore del centrosinistra.
D’altro canto, gli esempi anche “alternativi” non mancano: ultimo, Angelino Alfano, che dopo un periodo da segretario del Pdl non proprio esaltante dal punto di vista del consenso elettorale, ha di buon grado lasciato la prima fila del suo schieramento all’intramontabile Silvio Berlusconi, stanziando con le parole “Preferisco la riconoscenza all’ambizione” il sintomo che, forse, quello stesso male da sradicare non si annidi soltanto tra i più attempati, ma anche tra quei giovani che, pur avendo la possibilità di provare a rovesciare il rapporto di forza, preferiscono fare un passo indietro, legittimando e quindi perpetuando il sistema degli squilibri generazionali.
Volendo tentare un raffronto tra le posizioni di potere in Italia e altrove, troppo facile paragonare l’età di elezione di un Barack Obama a quella degli ultimi Presidenti del Consiglio italiani. Il problema, in realtà, è molto meno politico di quello che può sembrare: la classe politica, come al solito, ha le sue grandi colpe, ma le tocca anche il ruolo parafulmine a un sistema di relazioni, di giochi di potere e di influenze molto più esteso. Gli unici giovani di successo in Italia – salvo rare e benvenute eccezioni – sono quelli arrivati a guidare il proprio gruppo industriale per via ereditaria. Tra i manager delle società private, ma soprattutto di quelle pubbliche, le età di ingaggio e di promozione sono talmente avanzate da sortire l’effetto tragicomico che, nel momento in cui si accede alla posizione agognata, il mondo è cambiato a tal punto che la competenze e l’affidabilità dimostrate in mille occasioni possono risultare desuete.
Ecco, allora, che le lamentele dei 30-40enni non nascono dal nulla e si enucleano nella verità più amara che questa guerra anagrafica finisce per produrre: ” Padri senza futuro non possono generare figli capaci di averne”. La protesta della “Generazione perduta” andrebbe ascoltata solo per questa capitale – e drammatica – affermazione. La società italiana invecchia, sì, per l’aumentare della vita media. Sì, c’è un individualismo strisciante che corrode ogni senso di comunità e di progettualità. Ma la vera cancrena si annida dietro la constatazione che i giovani, oggi, hanno compreso di non poter donare ai propri figli un destino migliore del loro: il che, naturalmente, si traduce in effetti devastanti, primo tra tutti il crollo delle nascite, sostenuto negli ultimi anni dalla popolazione immigrata, soprattutto al Nord.
Per adesso, “Generazione perduta” specifica di non volersi dare una forma politica: quello che preme, scrivono i “pasdaran” dei 30enni, è portare all’attenzione dell’opinione pubblica un disagio motivato e la necessità di togliere le redini della società italiana dalle mani dei soliti noti. Una lotta che poggia proprio sul bacino anagrafico di utenti più web-dipendenti e, infatti, è destinata a fare proseliti sui monitor, dove, purtroppo, basta cliccare per pulirsi la coscienza, salvo poi ritornare con noncuranza alle proprie attività quotidiane. Resta da vedere, allora, come queste proposte saranno tradotte a livello di mobilitazione, di unità d’intenti, di operatività e di proposte concrete. Insomma, rimane da capire come la “generazione perduta” avrà intenzione di comportarsi “offline”.
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