Con il giudizio, la Corte ha invece accolto il ricorso di due coniugi italiani, Rosetta C. e Walter P., che, dopo la nascita della prima figlia, nel 2006, hanno scoperto di essere portatori sani di fibrosi cistica, malattia di cui poi era risultata affetta la primogenita. La patologia, infatti, ha una possibilità su quattro di essere trasmessa per via genetica ed è identificabile con una diagnosi preimpianto che, allo stato attuale, è consentita alle coppie fertili in 15 Paesi europei, ma non in Italia.
La coppia ha portato la propria battaglia fin alle aule di giustizia europee per avere la libertà di ricorrere alla fecondazione in provetta ed evitare, così, di incorrere nuovamente nel 25% di rischio di trasmissione genetica della fibrosi cistica. La Corte ha dato ragione a Walter e Rosetta, smontando di fatto l’impianto di una legge che stride con la possibilità, per i feti a cui viene riscontrata fibrosi cistica, di incorrere nell’aborto terapeutico.
Questa, infatti, la motivazione giuridica fondamentale alla base del pronunciamento, sulla base della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha rilevato come il sistema normativo italiano su questo argomento finisca per violare il rispetto della vita privata e familiare dei genitori.
In base alla sentenza, dunque, ora lo Stato italiano dovrà risarcire i due coniugi di 15mila euro più 2500 di spese legali. Intanto, nel Paese si è già scatenata la bagarre sulle questioni etiche: la sentenza rappresenta infatti un’indubbia vittoria per il fronte della laicità, che ha sempre osteggiato la legge 40 fin dalla sua promulgazione. Ora, si moltiplicano le voci che, prendendo la “sentenza al balzo” propongono di riscrivere dal principio la disciplina della fecondazione assistita in Italia.
Leggi il testo della sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla legge 40
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