In particolare gli enti non obbligati allo svolgimento condiviso delle funzioni (quelli con popolazione superiore a 5000 abitanti) che intendano stipulare una convenzione per l’esercizio associato di funzioni fondamentali devono rispettare, senza sconti: a) l’obbligo di riduzione della spesa di personale rispetto all’anno precedente (art. 1, comma 557-ter della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, L.F. 2007); b) l’obbligo di mantenere un rapporto strutturale virtuoso tra spesa per il personale e spesa corrente complessiva (50%), ai sensi dell’art. 76, comma 7, del D.L. n. 112 del 2008 (conv. Legge n. 133/2008, come recentemente novellato dalla L. n. 111/2011 e dalla L. n. 214/2011 e, da ultimo, dall’art. 4-ter, comma 10, L. n. 44 del 2012) all’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010; c) l’obbligo di avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009.
Lo ha ribadito, sulla scorta della consolidato orientamento della giurisprudenza contabile, la Corte dei Conti Lombardia, con il parere 15.06.2012 n. 279.
Riguardo ai primi due limiti la ratio della soluzione rigorosa e restrittiva adottata dalla Corte è semplice: l’esercizio condiviso di attività, anche a mezzo di convenzioni, ha lo scopo di consentire agli enti convenzionati di ridurre la spesa per l’esercizio delle funzioni, dato che lo svolgimento condiviso permette ai comuni di dimensioni ridotte di sfruttare le economie di scala che derivano dall’aumento della “massa critica”. Sicché sarebbe irragionevole e paradossale consentire degli sforamenti di costi agli enti che si convenzionano per conseguire risparmi di spesa. Ciò vale naturalmente sia per i comuni sotto i 5000 abitanti che per quelli con popolazione superiore a tale soglia.
I primi, infatti, sono obbligati ad esercitare in forma associata le funzioni fondamentali proprio perché da tale esercizio condiviso si attendono un incremento della qualità dei servizi e delle prestazioni pubbliche ed una riduzione dei costi.
Gli enti sopra soglia invece non sono obbligati all’esercizio associato, sicché una tale scelta si giustifica solo qualora consenta risparmi di spesa. La stipula della convenzione presuppone pertanto la congrua analisi dei suoi effetti finanziari sul bilancio dell’ente, nonché la verifica che essa non comporti il superamento dei limiti di spesa per il personale
Diversa è la situazione con riguardo al tetto alla spesa per il personale assunto secondo forme e modalità di lavoro flessibili. Questo vincolo riguarda tutte le tipologie di contratti di lavoro latamente atipiche o comunque non rispondenti al canone tradizionale del lavoro subordinato, esclusivo, continuativo ed a tempo indeterminato con l’amministrazione di appartenenza, compresi i rapporti di lavoro disciplinati nel contesto di “convenzioni”, disciplinanti la condivisione di personale. E’ il caso, ad esempio dello scavalco, istituto che mantiene fermo il rapporto tra il lavoratore e l’amministrazione presso cui è inquadrato, ma consente a quest’ultima di condividere le prestazioni del proprio dipendente con altri enti e di far gravare su questi ultimi una parte degli oneri di tali attività.
Limitare questo genere di rapporti di lavoro potrebbe paradossalmente portare ad un incremento complessivo della spesa di personale degli enti convenzionati. E’ evidente, infatti, che la possibilità di avvalersi di personale da gestire attraverso le cd tipologie flessibili di lavoro consentirebbe notevoli economie di spesa rispetto all’assunzione a tempo indeterminato.
Infatti la ragione del rigido tetto di spesa non è tanto (o solo) quella del contenimento dei costi, ma piuttosto la riqualificazione della spesa di personale attraverso la riduzione dell’uso e dell’abuso di forme contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, esclusivo e con piena disponibilità del tempo del lavoratore.
L’obiettivo è quello di prevenire l’affermarsi di una sorta di favore per le assunzioni a tempo parziale o determinato che, fra l’altro, potrebbe anche condizionare l’autonomia organizzativa degli enti locali.
Ciò perché le scelte in merito alla stabilizzazione o meno del personale, alla pianificazione ed ottimizzazione degli organici ed in generale alla organizzazione amministrativa rientrano nella discrezionalità degli enti decentrati, mentre se si ammettesse l’esclusione dal tetto di spesa per i rapporti di lavoro a tempo determinato le amministrazioni territoriali sarebbero indotte a far fronte alle proprie esigenze attraverso assunzioni a tempo parziale o determinato.
Si affermerebbe, in altri termini, un principio di preferenza per le assunzioni precarie che comprimerebbe in maniera illegittima l’autonomia organizzativa degli enti decentrati.
E’ per questa ragione che questo rigido vincolo deve applicarsi anche qualora il ricorso a tali “tipi” di contratti potrebbe comportare un potenziale risparmio di spesa.
Attraverso il combinato disposto delle norme che impongono un tetto alla spesa complessiva di personale e di quelle che limitano il ricorso alle tipologie di lavoro atipiche e flessibili il legislatore mira dunque a conseguire una progressiva riduzione dei costi di gestione del personale ed una riqualificazione della spesa attraverso il ricorso a forme di lavoro stabili.
Da una parte, infatti, gli enti territoriali sono chiamati a conseguire economie sempre maggiori nella gestione del personale, dall’altro devono rispettare questi impegnativi tetti di spesa riducendo progressivamente il ricorso a tipologie di lavoro flessibili.
Il fine è comprensibile e condivisibile: conseguire gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica nel rispetto delle aspettative dei lavoratori, far acquisire agli stessi le competenze che derivano dalla pratica costante delle tematiche oggetto dell’attività amministrativa e, nel contempo, dotare l’ente di competenze interne stabili che, in prospettiva possano anche consentire la progressiva riduzione del ricorso a professionalità esterne, che incide sempre più pesantemente sui bilanci pubblici.
Ma una simile convergenza tra qualità stabilità e convenienza del lavoro reso alle dipendenze degli enti pubblici richiede ovviamente una efficiente programmazione ed un certo margine temporale.
Sicché, medio termine,una disciplina così restrittiva comporta innegabili effetti negativi sulla gestione delle competenze e delle funzioni di competenza degli enti territoriali, e in termini economici può addirittura portare ad un esborso maggiore a carico delle casse pubbliche.
Non a caso la Corte non manca di rilevare l’effetto antieconomico che l’applicazione della norma potrebbe comportare, e di sottolineare “la dubbia razionalità, funzionalità e costituzionalità di norme che impongono un rigido limite quantitativo, ancorato ad un dato di spesa storico (la spesa sostenuta nel 2009), senza tenere conto, in alcun modo, delle legittime o opportune modifiche che la stessa spesa, nel corso degli anni, potrebbe aver subito”.
La Corte, pertanto, non ignora che una simile interpretazione rischia di pregiudicare seriamente la funzionalità delle amministrazioni territoriali e la loro possibilità di garantire l’erogazione di servizi e prestazioni fornite alle relative comunità nel rispetto dei parametri di buon andamento finanziario; ma tale effetto costituisce il risultato inevitabile di una precisa opzione del legislatore, che non può essere aggirata in sede ermeneutica attraverso interpretazioni additive o derogatorie di un testo molto chiaro nella rigida compressione delle spese relative a determinate tipologie di rapporti di lavoro.
L’adozione di provvedimenti adeguati spetta esclusivamente al Legislatore e al Giudice delle leggi, e sino ad allora questi vincoli vanno rispettati.
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