Tra i professori universitari, il ruolo di commissario tocca sempre ai più giovani. Ho avuto la fortuna di entrare in ruolo molto giovane e, nonostante sia passato oramai un decennio dal mio concorso, di rimanere uno dei più giovani tra i miei colleghi, in gran parte per colpa della crisi che attanaglia l’università italiana.
Ieri (e, immagino, anche oggi), le tracce erano disponibili su internet ancor prima che fossero dettate in molte sedi d’esame.
Ho sbirciato alcuni compiti del civile e ho notato che si parlava di una delibera del CICR. Oggi ho fatto lo stesso con alcuni compiti del penale e ho visto che alcuni candidati riportavano una modifica introdotta, se ho colto bene, dal decreto anticorruzione.
Sono informazioni, alcune recentissime, che non sono reperibili nei codici commentati. Informazioni che dubito che i candidati, salvo rare eccezioni, possano ricordare a memoria.
È chiaro, allora, che molti (anzi troppi) abbiano accesso ad internet, in barba ai controlli che si fanno all’inizio e ad ogni forma di vigilanza.
Dinanzi ad un simile scenario, ha davvero senso svolgere l’esame in questo modo?
Cosa premiamo? La connessione più veloce degli smartphone? Introduciamo formalmente l’aiuto da casa, come nei telequiz?
Non ho proposte da formulare; però, sono assolutamente convinto che una riforma serva.
Ne discutiamo serenamente? Oppure ci arrendiamo alla favoletta che il successo dei neo-avvocati dipenderà non dall’esame, ma dal mercato (in un Paese e in una professione in cui dubito funzionino adeguatamente reali meccanismi concorrenziali)?
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