Caio, cliente da anni della banca X riferisce di aver versato alla stessa, dopo la chiusura di alcuni rapporti di conto corrente con essa intrattenuti fra il 1994 e il 2008, l’importo comprensivo di interessi computati ad un tasso extralegale, e capitalizzati trimestralmente per parte della durata dei suddetti rapporti e successivamente capitalizzati annualmente. Il candidato assunte le vesti del difensore di Caio, rediga motivato parere sugli istituti e su problematiche sottese alla fattispecie soffermandosi in particolare sulla eventuale prescrizione dell’indebito, sull’anatocismo e sulla pattuizione inerente tasso di interesse passivo.
Esempio di svolgimento n. 1
Con la traccia oggetto di parere mi si chiede di assumere le vesti di difensore di Caio al fine di tutelarlo in ordine alle possibilità, anche eventualmente recuperatorie, benché problematiche, relativamente ad una serie di operazioni di conto corrente intercorse tra il 1994 ed il 2008 con la Banca X, gravate da interessi pattizi extralegali, capitalizzati sia trimestralmente che annualmente.
Al fine di rendere il parere richiesto appare necessario muovere dagli istituti dell’anatocismo, della prescrizione dell’eventuale ripetizione di indebito e dalla natura convenzionale degli interessi passivi, con necessario coinvolgimento delle molteplici problematiche connesse al caso di specie.
Con il termine anatocismo (dal greco anà – di nuovo, e tokòs – interesse) si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi). Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti “composti”. Un esempio di anatocismo è quello di capitalizzare (ossia sommare al capitale di debito residuo) gli interessi ad ogni scadenza di pagamento, anche se sono regolarmente pagati.
Il calcolo degli interessi in regime di capitalizzazione composta anziché in regime di capitalizzazione semplice determina una crescita esponenziale del debito, di conseguenza per periodi inferiori all’anno l’importo calcolato con la capitalizzazione composta sarà inferiore a quello che si determina nella capitalizzazione semplice.
Giuridicamente, in un’obbligazione pecuniaria l’applicazione dell’anatocismo comporterebbe, per il debitore, l’obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già scaduti.
La legge autorizza il pagamento degli interessi legali sulle quote di debito (capitale e interessi), che non sono state regolarmente pagate a scadenza.
Malgrado l’anatocismo sia un istituto conosciuto dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non ha raggiunto un sufficiente grado di completezza, tant’è che la disciplina si basa ancora sul codice civile del 1942, ed in particolare sull’art. 1283 c.c.. Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.
Nonostante la tutela approntata dal citato articolo, che subordina l’anatocismo alla compresenza di alcuni presupposti ben determinati, per circa mezzo secolo nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi. Ciò grazie (anche) all’avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l’esistenza di un contrasto con la previsione di cui all’art. 1283 codice civile, sulla base dell’affermazione dell’esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.
Nel 1999 la Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha più volte affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all’art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, modificare l’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): tale intervento ha introdotto in materia il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, nel contempo stabilendo – con norma transitoria – una sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dalla Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425).
Il cosiddetto “decreto salva banche” fu presentato il 23 luglio 1999, e convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999. La Consulta, con la citata sentenza, ha abrogato l’art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale per: l’irretroattività della legge, la disparità di trattamento fra soggetti del testo Unico Bancario e creditori sottoposti all’anatocismo, il non rispetto dell’autonomia e indipendenza della magistratura.
Dopo la sentenza della Consulta, del 17 ottobre 2000, un secondo decreto fu approvato il 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24 il quale fornisce l’interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire il suo approccio più recente, peraltro estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo. Infine, con sentenza Cass. Civ., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095, la suprema Corte ha confermato in modo netto il revirement del 1999, così consolidando il nuovo trend giurisprudenziale.
Il tema dei diritti dei correntisti alla ripetizione di somme illegittimamente addebitate sul conto, soprattutto per interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto, presenta diversi e noti profili autorevolmente dibattuti.
Tra questi, un aspetto saliente è costituito dall’individuazione del giorno in cui inizia a decorrere il termine di prescrizione decennale per far valere tali diritti, ai sensi dell’art. 2935 cod. civ. (“la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”).
La giurisprudenza di merito, negli ultimi anni – in particolare, dopo che la Cassazione ha affermato l’illegittimità della capitalizzazione trimestrale praticata dalle banche, è stata chiamata numerose volte a pronunciarsi sull’argomento e si è divisa, essenzialmente, tra due orientamenti.
Un orientamento ritiene che il termine di prescrizione decorra dalla chiusura del conto corrente, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, sicché la serie di accreditamenti ed addebiti costituirebbe un dato contabile, mentre è solo con la chiusura del conto che si stabilisce l’entità del credito e del debito delle parti.
Un diverso indirizzo afferma che la prescrizione decorra da ciascun addebito in conto corrente, poiché la relativa annotazione produrrebbe l’effetto di modificare il saldo e consentirebbe di esercitare il diritto di ripetizione.
In questo quadro sono intervenute le Sezioni Unite (Cass., S.U., 2 dicembre 2010, n. 24418), le quali hanno stabilito che, al fine di individuare il dies a quo della prescrizione, occorre distinguere tra il caso in cui il cliente gode di una apertura di credito (e perciò il versamento sul conto serve a ripristinare la provvista) ed il caso in cui il conto è scoperto o il versamento sia comunque extra fido (qui il versamento è un vero pagamento, con natura solutoria).
Nella prima ipotesi, ha giudicato la Corte di legittimità, il termine di prescrizione decorre dalla chiusura del conto, poiché i precedenti addebiti, appunto, non sono qualificabili tecnicamente come pagamenti; nella seconda ipotesi, invece, ogni versamento corrisponde ad un vero pagamento e come tale (ove fosse eseguito per effetto di una clausola nulla) produce immediatamente il diritto del cliente di chiederne la ripetizione, ed il termine di prescrizione di tale diritto, di conseguenza, inizia a decorrere subito.
Tale soluzione, seppure con le suddette distinzioni, dava un quadro finalmente solido in termini di certezza del diritto.
Ma, come la dottrina ha prontamente segnalato , il legislatore è intervenuto con una “particolarmente tempestiva previsione”, mutando in modo radicale i termini della questione.
La norma cui si allude è l’art. 2, co. 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, conv. con modif. dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10.
Il suo tenore è il seguente: “in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Il senso della disposizione, così come colto da molte decisioni che l’hanno applicata (senza ravvisarne profili di illegittimità costituzionale), è che la prescrizione del diritto alla ripetizione inizia a decorrere, per ciascun addebito, dal momento in cui è avvenuta l’inerente annotazione in conto.
Il che si traduce nell’estinzione della gran parte delle pretese, specialmente in materia di anatocismo, atteso che in tale ambito, com’è noto, le controversie riguardano prevalentemente operazioni poste in essere negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in relazione alla disciplina all’epoca vigente.
Taluni Giudici di merito, tuttavia, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, in particolare censurando l’effetto retroattivo della norma, da cui sono scaturite nove ordinanze di rimessione alla Consulta.
Con sentenza 05 aprile 2012 n. 78, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla l. 26 febbraio 2011, n. 10, il quale prevedeva che “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione d’importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Secondo la Corte, la norma censurata violava, con la sua efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle leggi (art. 3 Cost.). La stessa era, infatti, intervenuta sull’art. 2935 c.c. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso di quel termine. La disposizione censurata, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935., derogava nettamente ad esso , innovando rispetto al testo previgente, senza peraltro alcuna ragionevole giustificazione. Per la Consulta l’efficacia retroattiva della deroga rendeva, per l’effetto, asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finiva per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso. Con ciò veniva pregiudicata la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, avevano avviato azioni dirette a ripetere somme illegittimamente addebitate loro.
Di qui la violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispettava i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.
E così l’abusivo comportamento della banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi passivi maturati a carico del cliente, e di computare anche su questi quelli del trimestre successivo ha trovato un’ulteriore censura.
Da quanto esposto discende che, essendo la materia stata regolata dal citato provvedimento espressamente previsto dalla legge, la questione si pone ormai per il periodo antecedente l’entrata in vigore dello stesso pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2000 n. 43. Per quello successivo vi è, infatti, soltanto da verificare se l’istituto si sia adeguato alla normativa. Per quello precedente non vi sono dubbi in merito alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto di ripetizione. Secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. n. 24418/10) ed oggi anche per la Corte Costituzionale il dies a quo coincide con la chiusura del conto. In altre parole, il termine decennale per chiedere la restituzione va fatto partire da quel momento,senza che abbia alcuna rilevanza il fatto che banca, dal 9 febbraio 2000 in poi, si sia uniformata alle disposizioni di cui si è detto. Potrà chiedersi tutto ciò che è stato trattenuto dall’apertura del conto, o meglio da quando quest’ultimo è stato in rosso, fino al 2000.
Resta a questo punto da chiedersi chi possa avvalersi delle pronunzie della Suprema Corte e della Consulta. La restituzione degli importi illegittimamente trattenuti dall’istituto può essere chiesta da chiunque, persona fisica, associazione, fondazione o società abbia intrattenuto con una banca un rapporto produttivo d’interessi passivi. Insomma, l’azione di ripetizione può essere intrapresa non solo da consumatori, ma anche da enti.
Per quanto riguarda il tipo contrattuale, da cui esso scaturisce, può trattarsi sia di conti correnti, sia di mutui, sia di contratti quali le anticipazioni su crediti: basta, come detto, che il medesimo fosse “in rosso”, cioè passivo. Caio, prima di adire le vie legali, invierà per mio tramite una raccomandata a.r. alla banca con la richiesta di restituzione degli importi trattenuti in violazione dei citati precetti.
Esempio di svolgimento n. 2
Ai fini detta trattazione del tema in esame, va detto, che lo stesso ha particolarmente arricchito il dibattito dottrinario e giurisprudenziale degli ultimi anni,vuoi per le rilevanti implicazioni di carattere tecnico-giuridico, vuoi per le inevitabili ricadute sul piano economico ed in particolare sui bilanci degli Istituti di Credito.
Come è noto, infatti, con il termine anatocismo si intende la capitalizzazione degli interessi su un capitale, affinché essi siano a loro volta produttivi di altri interessi (in pratica è il calcolo degli interessi sugli interessi).
Nella prassi bancaria, tali interessi vengono definiti “composti”.
Malgrado l’anatocismo sia un istituto conosciuto dagli albori del prestito ad interesse, la normativa italiana non ha raggiunto un sufficiente grado di completezza, tant’è che la disciplina si basa ancora sul codice civile del 1942, ed in particolare sull’art. 1283 c.c.
Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi.
In linea di principio,dunque, il codice civile ha da sempre vietato un regime di capitalizzazione composta degli interessi, ovvero il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.
Nonostante la tutela approntata dal citato articolo, però, che come detto, subordinava l’anatocismo alla compresenza di alcuni presupposti ben determinati, per circa mezzo secolo nella prassi bancaria italiana hanno trovato applicazione, pressoché generalizzata, nei contratti di apertura di conto corrente, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli impieghi.
Ciò va detto, grazie (anche) all’avallo della giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, che ha affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l’esistenza di un contrasto con la previsione di cui all’art. 1283 codice civile, sulla base dell’affermazione dell’esistenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.
Nel 1999 la Corte di Cassazione, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, ha iniziato, invece ad affermare la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, sostanzialmente argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all’art. 1283 c.c..
Per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi, il legislatore ha ritenuto opportuno, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, modificare l’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia): tale intervento ha introdotto in materia il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, nel contempo stabilendo – con norma transitoria – una sanatoria per il pregresso, facendo salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 Costituzione, dalla Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425,[1]).
Il cosiddetto “decreto salvabanche” fu presentato il 23 luglio 1999, sotto il Governo D’Alema I, convertito in legge n. 342 del 4 agosto 1999[2]. La Consulta, con la citata sentenza, ha abrogato l’art. 25, comma 3, dichiarato incostituzionale per: l’irretroattività della legge, la disparità di trattamento fra soggetti del testo Unico Bancario e creditori sottoposti all’anatocismo, il non rispetto dell’autonomia e indipendenza della magistratura.
Dopo la sentenza della Consulta, del 17 ottobre 2000, un secondo decreto fu approvato il 29 dicembre 2000, n. 394, a firma del Presidente del Consiglio Amato e della Repubblica, Ciampi, e convertito in legge 28 febbraio 2001, n. 24[3]. Il decreto fornisce l’interpretazione autentica della legge antiusura n. 108 del 1996.
Venuta meno la norma transitoria, finalizzata ad assicurare validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti bancari stipulati anteriormente alla entrata in vigore della nuova disciplina, paritetica, della materia, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze (tra le altre, si veda la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), a ribadire il suo approccio più recente, peraltro estendendo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario anche ai contratti di mutuo. Infine, con sentenza n. 21095/2004 (Cass. Civ., SS.UU., 4 novembre 2004, n. 21095), la suprema Corte ha confermato in modo netto il revirement del 1999, così consolidando il nuovo trend giurisprudenziale.
Tutto ciò poi appare lucidamente espresso in una recentissima sentenza del 2010 nella quale le sez. unite sono intervenute nuovamente sull’argomento stabilendo espressamente che: Tutte le volte in cui i versamenti in conto non superino il passivo ed in particolare il limite dell’affidamento concesso al cliente si tratterà di atti ripristinatori della provvista, della quale il correntista può ancora continuare a godere, e non di pagamenti. In questi casi il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente, a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi.(In senso conforme Cass. Civ., Sez. I, 9 aprile 1984, n. 2262, App. Lecce, 19 febbraio 2009, Trib. Torino 21 gennaio 2010, Trib. Lecce 15 dicembre 2009, Trib. Mondovì, 17 febbraio 2009, App. Torino, 14 novembre 2007, App. Lecce 22 ottobre 2001; in senso contrario Trib. Mantova 2 febbraio 2009, Trib. Mantova 12 luglio 2008)
La decisione delle Sezioni Unite, dunque, ribadisce l’assenza di qualsivoglia dubbio circa la nullità delle clausole anatocistiche, ex art. 1418, primo comma c.c., per contrarietà all’art. 1283 c.c. e conferma che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente, a titolo di interessi su un’apertura di credito in conto corrente, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi. Per i giudici nel caso di conto assistito da apertura di credito, essendo il conto soltanto passivo ma non scoperto, il debito del correntista non è immediatamente esigibile e le rimesse non hanno, perciò, funzione solutoria.
Si abbandona pertanto – da parte delle Sezioni Unite – definitivamente il punto di vista di una parte della giurisprudenza di merito che aveva ritenuto che nei contratti di durata ogni singola prestazione avesse una sua autonomia, sicché ognuna di esse resterebbe soggetta alle regole comuni e, quindi, anche a quelle sulla decorrenza della prescrizione con la conseguenza che l’azione di ripetizione, per la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dalla banca sul conto corrente, decorrerebbe dall’esecuzione di ogni singolo addebitamento e non dalla chiusura del conto].
Ex adverso, osservano le Sezioni Unite, tutte le volte in cui i versamenti in conto non superino il passivo ed in particolare il limite dell’affidamento concesso al cliente si tratterà di atti ripristinatori della provvista, della quale il correntista può ancora continuare a godere, e non di pagamenti.
In questi ultimi casi, un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha nè lo scopo nè l’effetto di soddisfare la pretesa della banca di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto nè esigibile) ma esclusivamente l’effetto di ripristinare la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista: dunque, non costituisce un pagamento ex art. 2033 c.c.
In questa prospettiva, la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione della facoltà di maggior indebitamento, ma non si tratta mai di pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente al’atto della chiusura del conto.
Le Sezioni Unite applicano quindi, ciò che era ormai ius receptum con riferimento ai pagamenti revocabili, ex art. 67, II co., L.F. – RD n. 267/1942; il pagamento, rilevante ai fini di detta norma, va ravvisato in tutti i casi in cui venga superato il limite del fido, ovvero non sussista neppure un rapporto derivante da apertura di credito, o ancora il conto sia diventato scoperto per recesso della banca o, infine, i versamenti concernano un conto corrente per il quale quest’ultima abbia disposto la sospensione, anche solo di fatto, dell’affidamento concesso: in tutti questi casi i versamenti concernenti un conto corrente vengono, a seguito di una delle predette vicende, ad assumere un’evidente funzione solutoria, essendo in tale ipotesi il debito certo ed esigibile.
In altre parole, affinchè il pagamento possa essere considerato, sulla base dell’art. 1191 c.c. , atto materiale per il quale non è necessario l’animus solvendi, deve reputarsi il versamento atto diverso dal pagamento, allorquando risulti la volontà delle parti di rivolgerlo ad uno scopo diverso dal pagamento del debito. E’ ovvio che tale volontà possa risultare per facta concludentia dallo stesso comportamento della banca, ossia dalle risultanze del conto corrente.
Proprio per questo i giudici ribadiscono la distinzione tra “conto scoperto” e “conto semplicemente passivo”. Per scoperto di conto s’intende sia l’ipotesi dell’assenza di un rapporto avente per effetto quello di costituire, a favore del correntista, un credito disponibile verso la banca (anticipazione bancaria o apertura di credito), sia l’ipotesi del cosiddetto “sconfinamento” dal fido concesso; in entrambi i casi le rimesse che affluiscono sul conto vengono ad avere un carattere solutorio, nel limite in cui eliminano lo scoperto.
Diversamente, nel caso di conto assistito da apertura di credito, essendo il conto soltanto passivo ma non scoperto, il debito del correntista non è immediatamente esigibile e le rimesse non hanno, perciò, funzione solutoria.
In questi casi, come già detto, le rimesse hanno la funzione di ripristino della disponibilità. In buona sostanza la Corte ribadisce e mette un punto fermo sulla diatriba che ha agitato dottrina e giurisprudenza in merito alla concezione stessa del pagamento quale semplice atto materiale, trasformato in atto in cui comunque rileva la causa, costituita dalla volontà delle parti di qualificare tale attività, colorandola ben oltre la semplice neutralità con l’animus solvendi, ovvero con la semplice volontà ripristinatoria.
In conclusione le annotazioni operate dall’azienda in un conto corrente bancario) non costituiscono la conseguenza di reciproche rimesse e non esprimono l’esistenza di debiti e crediti di ciascun contraente nei confronti dell’altro ma rappresentano semplici variazioni quantitative dell’ordinario rapporto di credito o di debito con la banca.
Il cliente non effettua nessun pagamento indebito ma semplicemente è uno spettatore che “subisce una annotazione”.
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