Un passaggio nient’affatto scontato, dal momento che, pochi giorni or sono, lo stesso Comey si era lasciato sfuggire come fossero riprese le analisi dei messaggi nel server di posta privato della candidata democratica. Dichiarazione sibillina che, se da una parte aveva lasciato aperto qualsiasi scenario per il prossimo futuro – compresa la possibilità di impeachment per il possibile prossimo presidente – dall’altra aveva dato il la all’insperata rimonta di Donald Trump nei sondaggi.
Secondo alcune case di rilevazione demoscopica, infatti, il magnate nei giorni scorsi si era riavvicinato alla candidata democratica, balzando in testa in alcuni Stati ritenuti fondamentali per la vittoria finale nelle elezioni di domani. Questo scossone, dopo un periodo di tranquillità, aveva rigettato qualche ombra nella campagna dei democratici, incapace di dare risposte chiare a uno scandalo tornato improvvisamente di attualità, dopo la “bomba” sganciata da Comey.
Non a caso, era stata la stessa Hillary Clinton a chiedere a gran voce agli ufficiali del Federal Bureau of Investigation di rivelare tutte le informazioni in loro possesso per togliere di mezzo dubbi e illazioni. Ci sono voluti altri giorni, ma alla fine un chiarimento, pur senza troppe spiegazioni, è infine arrivato: non ci saranno ulteriori accuse contro la Clinton, che già in estate si era trovata a doversi difendere di fronte alla commissione incaricata di occuparsi della vicenda.
Cosa accadrà alle elezioni
Ora, ovviamente, la domanda che interessa tutti è: quanto inciderà questa nuova rivelazione nel computo delle elezioni?
È difficile, se non impossibile, quantificare l’impatto di questa nuova inversione a U. Ora, l’inerzia sembra tornata a favore dei democratici, dopo una settimana difficile in cui si sono trovati a dover contenere il rinnovato entusiasmo da parte di Donald Trump, tornato a credere nella vittoria.
Così come era complicato valutare sull’elettorato l’annuncio sulla possibile riapertura delle indagini, che avrebbe dovuto favorire Trump, è ancor più arduo poter misurare gli effetti del dietrofront a pochissime ore dall’election day. Indubbiamente, il vento pro repubblicani nei giorni scorsi può aver pesato sull’early voting, ossia il voto anticipato, pratica consentita negli States.
E, in proposito, in questi giorni sono arrivati segnali contrastanti dalle minoranze: in North Carolina e Florida, due Stati ritenuti tra i possibili campi di battaglia in cui si deciderà l’elezione, le adesioni degli afroamericani al voto anticipato sono state più basse rispettivamente del 16% e del 10% rispetto al 2012, quando entrambi gli Stati vennero assegnati al vincente Barack Obama. D’altro canto, però, le preferenze dei latinos – decisive in aree come Florida o Nevada – per Hillary Clinton sembrano più elevate rispetto a quanto raccolto dal presidente uscente nel 2012, con un +13% che sembra scoraggiare i sostenitori di Trump.
Siamo, insomma, di fronte a uno scenario estremamente variabile. I vantaggi dei singoli candidati negli Stati chiave rimangono minimali e al momento queste inusuali, imprevedibili e strambe elezioni presidenziali sembrano un vero e proprio rebus. Statisticamente, c’è solo un dato che può mantenere la Clinton in posizione favorita: per lei, molto semplicemente, esistono più “strade” per la vittoria, ossia un numero più alto di combinazioni tra i vari Stati in grado di poterla avvicinare alla quota fatidica dei 270 grandi elettori.
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