Nel 2016, è stato tutto diverso, in quella che potrebbe passare alla storia come l’elezione che cambierà il volto alla democrazia americana. O, forse, si è trattato solo di un gigantesco equivoco, e ora Donald Trump si trova a Washington per una combinazione di effetti e contingenze quasi irripetibili?
Cerchiamo di capirci di più, partendo dall’inizio.
L’inizio, in questi casi, sono le elezioni primarie, cioè quando un partito sceglie il proprio candidato alla presidenza. Trump i suoi avversari li ha sbaragliati tutti, senza possibilità di appello, vincendo fin dai primissimi caucus in Iowa. Uno dopo l’altro, gli altri candidati sono andati al tappeto: Trump, però, non ha incassato quasi mai dei plebisciti, ma ha saputo affidarsi a un gruzzolo costante e crescente di voti. Un’ascesa, la sua, agevolata da una frammentazione inaudita all’interno del Grand Old Party, espressa in ben 17 candidati ai nastri di partenza: record assoluto di ogni tempo per le primarie repubblicane. Con le varie anime – evangelici, moderati, tea party, ispanici – balcanizzate in troppi pretendenti, Donald Trump ha potuto contare su una base solida di sostenitori, che gli ha consentito di portare a casa molti Stati anche senza raggiungere il 50%. Spinto anche dall’attenzione mediatica, sempre sensibile alle novità meglio se provocatorie, Trump ha così portato a casa un numero sufficiente di delegati per giocarsi la presidenza. Quando i candidati hanno cominciato a farsi da parte, circa a metà della corsa, i giochi erano ormai fatti: troppo tardi per arrestare il ciclone Trump e personalità troppo deboli a contrastarlo, incapaci di arrivare a una sintesi. Dunque, non restava che accordare la propria preferenza al tycoon. A malincuore, dunque, il partito Repubblicano non ha potuto che assegnare la nomination al candidato più inviso all’establishment, ma abile ad approfittare delle divisioni in un quadro a dir poco lacerato.
E veniamo alle elezioni presidenziali.
Da quando ha preso corpo la vittoria di Trump, due sono le chiavi di lettura prevalenti: i suoi elettori sono poveri e ignoranti. Ma è davvero così?
Innanzitutto, se confrontiamo le preferenze riscosse dal neo eletto e i suoi predecessori alla nomination repubblicana, notiamo come la sua performance sia stata assai meno entusiasmante di quanto i media non stiano raccontando nelle ultime ore sull’onda della sorpresa. Trump ha raccolto poco meno di 59 milioni e 500 mila voti, pari ai 47,7% del totale, che non gli hanno permesso di aggiudicarsi il voto popolare, andato per 200mila schede a Hillary Clinton.
Un risultato, in termini percentuali, che non solo è il più basso nella storia recente per un presidente eletto nei testa a testa, ma che peggiora i bottini dei due sconfitti da Barack Obama, John McCain nel 2008 (500mila voti in più di Trump) e Romney nel 2012 (addirittura un milione e mezzo in più di Trump). Se Donald Trump è presidente, oggi, lo si deve, allora al bilancio pessimo sui voti raccolti da Hillary Clinton. La prima donna a ottenere la nomination, ha agguantato, sì, la maggioranza assoluta delle preferenze, ma ha perso, rispetto al risultato di Barack Obama quattro anni fa, ben sei milioni di voti, che diventano dieci se si torna fino al 2008.
Dati che naturalmente si ripercuotono nei singoli Stati, con la caduta di alcune roccaforti come il Wisconsin o vere e proprie débacle, come in Iowa dove ha perso di 10 punti dopo che Obama aveva vinto dello stesso margine appena quattro anni fa. Si è detto della deludente partecipazione al voto delle minoranze, che avrebbero dovuto seguire in massa Hillary; il tradimento peggiore per la candidata, però, è arrivato proprio nella maniera più insospettabile, da chi avrebbe dovuto affossare le pretese di Trump, ossia le donne. Secondo le prime rilevazioni post voto, Trump ha ottenuto il 62% delle preferenze femminili tra le donne bianche non laureate, riuscendo comunque a ottenere un più che dignitoso 45% tra quante hanno concluso il college.
L’unico campo dove Clinton sfonda è quello dei millennials ossia i giovanissimi, al voto per la prima volta. Riguardo al reddito, invece, emerge come i più poveri, sensibili alle tematiche del welfare abbiano in realtà preferito la Clinton. L’istituto Roper Center ha suddiviso l’elettorato in tre macro categorie di reddito: fino a 50mila dollari, tra 50 e 100 mila e oltre 100mila. Nelle ultime due, a prevalere è nettamente Trump, mentre tra i meno abbienti la preferita è stata la dem, in un misura sempre più larga allo scendere degli stipendi. Insomma, a supportare con più convinzione Trump non sono i poveri, ma la classe media, che negli anni di Obama ha beneficiato delle misure economiche riuscendo ad allargare i propri confini, di etnia bianca, preferibilmente senza laurea e di età adulta o avanzata.
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