Elezioni politiche 2013: analisi e considerazioni sull’esame dei contrassegni

Varie conferme e qualche sorpresa nello scorrere la lista delle ricusazioni operate dal Ministero dell’Interno sui 219 contrassegni depositati per le elezioni del 24 e 25 febbraio. Non si terranno in considerazione qui gli emblemi che sono stati considerati senza effetti, per l’incompletezza della documentazione: come è noto, non viene compiuto alcun esame su di essi, per cui è più interessante capire cosa ha portato a respingere gli altri marchi politici.

I casi più scottanti, inutile dirlo, erano quelli legati ai simboli “clonati” del Movimento 5 Stelle, di Rivoluzione civile e della “lista Monti” (che pure non era clonata a tutti gli effetti, essendo la grafica molto diversa da quella delle due liste a sostegno del Presidente del Consiglio uscente). Come in molti (a partire dal sottoscritto) avevano previsto, i funzionari del Viminale hanno ricusato i simboli che la stampa ha in fretta battezzato come “falsi”, pur ritenendo di avere diritto di presentare quel particolare emblema.

Per quanto si può immaginare, il Ministero deve avere applicato a questi casi l’ormai noto articolo 14 comma 5 del decreto legislativo n. 361/1957 (testo unico per l’elezione della Camera), in base al quale non è ammessa la presentazione di un contrassegno “con il solo scopo di precluderne surrettiziamente l’uso ad altri soggetti politici interessati a farvi ricorso”. Ciò valeva sicuramente per il M5S, che dal 2010 in avanti ha partecipato a varie tornate elettorali (comunali e regionali) con il simbolo depositato venerdì, ma si può applicare anche alle formazioni a sostegno di Antonio Ingroia e di Mario Monti, che sono alla prima partecipazione elettorale, ma hanno acquistato indubbiamente notorietà negli ultimi giorni grazie all’esposizione mediatica notevole che hanno ricevuto. Se, nelle loro decisioni, i giudici e l’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Cassazione hanno finora stabilito che questa, come le altre disposizioni dell’articolo 14, sono a tutela innanzitutto degli elettori, si finirebbe per trarli in inganno se si permettesse a soggetti diversi, magari costituiti prima ma certamente meno noti, di utilizzare nomi e simboli che il “pubblico” elettorale ha già collegato ad altri soggetti.

Se vorranno, i depositari dei tre emblemi in questione potranno modificare le loro icone (ad esempio togliendo la “V” e sostituendo il disegno delle cinque stelle con la dicitura “5 stelle” – ammesso che sia ritenuto sufficiente – oppure riducendo le dimensioni del cognome Monti e aggiungendo il nome Samuele, nel caso del Comitato Monti presidente); non è improbabile, tuttavia, che questi soggetti desistano dalla sostituzione (e il loro emblema sarà definitivamente ricusato) o ricorrano all’Ufficio presso la Cassazione, sperando di avere ragione e di tornare “in corsa”. Per ora, tra l’altro, salta anche il simbolo della Lega Nord, cui è stata aggiunta la “pulce” del movimento “3L” di Giulio Tremonti: la ricusazione sarebbe data dall’espressione “TreMonti”, che un po’ rimanderebbe indebitamente alla figura del Presidente del Consiglio uscente, un po’ si porrebbe in contrasto con l’altro nome indicato sull’emblema, quello di Roberto Maroni; un semplice ritocco e il simbolo tornerà ammissibile.

Restando in ambito “grillino”, sono stati comprensibilmente bocciati, ma per semplice confondibilità, anche i contrassegni del Voto di protesta – Diritto alla dignità (specie per l’espressione BEPPEciRILLO.IT presente alla base del cerchio) e del Partito dei cittadini, che al suo interno aveva la dicitura “5° Fabiola Stella“, con il nome di persona piccolissimo). Colpisce invece l’esclusione – a meno di modifiche dell’ultim’ora – del Movimento No Euro – Lista del Grillo parlante di Renzo Rabellino: nel 2008 in effetti era stato ricusato il contrassegno per la troppa evidenza data alla parola Grillo, ma questa volta il termine usato in partenza era “Grilli”, con una raffigurazione simile a quella poi ammessa nel 2008. E’ probabile che il Viminale abbia ritenuto fuorviante la presenza di un solo grillo sul simbolo, ma soprattutto che abbia inasprito l’esame rispetto a 5 anni prima, per la reale presenza di Beppe Grillo come capo della coalizione e su un altro contrassegno.

Bocciato anche, sempre per confondibilità, un’altro dei due contrassegni storicamente vicini a Rabellino, la “Lega padana“: a determinare la ricusazione, probabilmente, non è stato il termine “Lega” (accettato in molte altre varianti), bensì il suo accostamento all’aggettivo “Padana”, che lo avrebbe reso confondibile con l’Unione padana di Giulio Arrighini (depositato in precedenza e con la croce di San Giorgio lombarda nella parte inferiore dell’emblema) e forse anche con la Lega Nord (che aveva presentato un esposto peroprio per quel motivo); non a caso, la variante “Lega Centro” è stata accettata senza problemi. Ricusato pure il marchio politico della Lega Padana Lombardia, nome precedente della formazione di Arrighini, per decisa somiglianza all’altro contrassegno (e, forse, per riconducibilità allo stesso soggetto).

Un capitolo delicato dell’esame degli emblemi riguardava la “moltiplicazione” dei Pirati. Il Viminale alla fine ha deciso di tutelare il Partito Pirata costituito nel 2006, pure se non si era mai presentato alle elezioni e aveva depositato l’emblema dopo un altro “Partito pirata” (di cui è portavoce Marco Marsili) che invece ad alcune elezioni locali aveva partecipato con il suo simbolo “pirata” del jolly roger con le sciabole. Hanno convinto i funzionari due ordinanze emesse dal Tribunale di Milano l’anno scorso, in cui a Marsili si inibiva – sia pure in via solo cautelare – l’ulteriore uso dell’espressione “Partito pirata” e della bandiera nera tradizionalmente simbolo dei Pirati in Europa. Toccherà a lui, dunque, sostituire l’emblema, verosimilmente privandolo di questi elementi; escluso senza dubbi, invece, il Movimento pirata che aveva utilizzato come unico simbolo la bandiera.

Alcune ipotesi di ricusazione sembrano aver riguardato casi in cui non è stato possibile provare la continuità giuridica di un partito: è il caso quasi certamente del Movimento sociale italiano – Destra nazionale, legato a Gaetano Saya, non coincidente con il Msi, trasformatosi poi in An. Meno chiaro è cosa sia accaduto all’emblema del Movimento idea sociale, inizialmente facente capo a Pino Rauti, poi a Giuseppe Incardona (non a caso, il simbolo bocciato è proprio quello che lui tentò di presentare nel 2006): il “vecchio” simbolo di Alleanza nazionale non è stato presentato dalla Fondazione An, che ne è titolare, quindi non è chiaro se questa abbia presentato in qualche maniera un esposto (anche per il caso del Msi di Saya) oppure se il Viminale abbia voluto evitare la confondibilità a prescindere dalla presenza del partito in Parlamento. Qualcosa di simile sembra accaduto a quei simboli che imitavano troppo da vicino, anche solo nelle diciture riportate sul contrassegno, il “vecchio” emblema di Forza Italia: è il caso di Viva l’Italia (che ha “taroccato” il testo della bandiera originaria del partito di Silvio Berlusconi), Forza Italiani (che pure nella grafica non ha nessuna somiglianza con il simbolo del 1994) e la Nuova ForzaItalia for President (le parole qui sono sufficienti, anche per le loro dimensioni, a creare la confondibilità).

Ben due i “Fratelli d’Italia” non ammessi alla fase successiva: nessun problema con la bocciatura del secondo (depositato poco prima della scadenza del termine), per il nome identico anche se basato su una grafica del tutto diversa. La stessa situazione si potrebbe indicare per il primo dei due emblemi ricusati, ma la situazione era indubbiamente delicata: a presentarlo, infatti, è stato il movimento Fratelli d’Italia, fondato nel 2007 a Marsala, che aveva già diffidato Guido Crosetto e Giorgia Meloni (e Micaela Biancofiore prima di loro) dal presentare un emblema con quel nome. Anche in questo caso, però, il Ministero probabilmente ha dato atto a Crosetto e Meloni della notorietà conquistata nei giorni precedenti grazie ai media e ha ritenuto di non dover privilegiare il movimento Fratelli d’Italia, che per di più aveva presentato il suo emblema dopo quello più “noto” degli ex Pdl: avere una grafica del tutto diversa, con un cavaliere su fondo blu e la base tricolore, non è bastato a salvare il simbolo.

Qualcosa di molto simile sembra accaduto anche all’Unione di Centro – Udc, già presentata (sia pure con un contrassegno più semplice e spoglio) nel 1994 alle politiche da Ugo Sarao; già in quell’occasione, tra l’altro, l’emblema era stato in un primo tempo escluso per la compresenza dell’Unione di centro di Raffaele Costa, ma riuscì a dimostrare che la denominazione l’aveva in qualche modo ideata lui e che la grafica non era affatto confondibile. Le considerazioni sulla grafica rimangono anche oggi, mentre il confronto con l’Udc di Casini ha fatto prevalere questo partito, per la tutela che l’articolo 14 comma 6 attribuisce ai partiti già rappresentati in Parlamento (mentre l’Udc di Costa era alla prima partecipazione). Devono essere caduti in una somiglianza “pericolosa” anche altri due simboli, del Partito comunista (un tempo i Comunisti sinistra popolare di Marco Rizzo) e dei Proletari comunisti italiani: le sigle di entrambi rimandano molto al vecchio Pci e devono aver ricordato un po’ troppo altri due emblemi depositati per tempo, il Partito comunista dei lavoratori e il Partito comunista italiano marxista-leninista.

Accanto alle somiglianze, non sono mancate addirittura le identità. Ai tavoli del Viminale, infatti, sono arrivate due copie identiche del contrassegno di Alba dorata Italia ed è stata accolta quella depositata per prima da Giorgio Berardi e non quella di Alessandro Gardossi, portata solo successivamente (non c’era del resto altro criterio); lo stesso è accaduto con l’emblema di Grande Sud, di cui è stato riconosciuto regolare solo il secondo deposito (di Giuseppe Fallica) a scapito del primo e di un’altra formazione con un nome molto simile (Grande Sud indipendente) e una grafica più artigianale.

Manco a dirlo, l’identità che più colpisce riguarda gli scudi crociati. Già, perché a fronte del simbolo dell’Udc che, come previsto e prevedibile, ha avuto tutela rispetto a tutti gli altri usi dello scudo crociato, sulle bacheche del Viminale sono apparse addirittura tre Democrazie cristiane. L’unico modo per distinguere per bene i contrassegni è guardare con attenzione ai dettagli: uno scudo – presumibilmente il più chiaro – è stato depositato dalla Dc guidata da Gianni Fontana; un altro – perfettamente identico, se non per il colore del fondo, un briciolo più scuro – è stato presentato da Alessandro Duce (fino a poco tempo fa segretario amministrativo della Dc-Fontana), in qualità di ultimo segretario amministrativo della Dc “storica”, a suo dire “riattivata” grazie alla sentenza della Cassazione civile a sezioni unite n. 25999/2010 (che ha confermato la sentenza n. 1305/2009 della Corte d’appello di Roma) sul mancato scioglimento del partito e sul suo cambiamento di nome invalido; un terzo scudo – leggermente tridimensionale, con un riflesso di luce, ma identico per il resto – sarebbe stato conferito per conto della cd. Dc-Pizza, della cui attività negli ultimi mesi si era persa traccia. Tutti bocciati, quegli scudi, perché il diverso scudo che campeggia da anni sul contrassegno dell’Udc ha fatto scattare l’applicazione dell’articolo 14 comma 6 del t.u. Camera, che in caso di confondibilità tutela i partiti già rappresentati in Parlamento (e già votati dagli elettori): di fronte a questo argomento, non c’è sentenza o tentativo di “rianimazione” del partito di De Gasperi che tenga.

Tre simboli sono stati ricusati per la presenza di immagini religiose all’interno degli emblemi: si tratta in particolare delle croci presenti in Rsi Nuova Italia, nella Lista civica Militia Christi e nel contrassegno di Consortio vitae. E’ la legge a chiedere che il fenomeno religioso non sia coinvolto nel meccanismo elettorale, dunque non stupisce la decisione del Viminale (che ha invece risparmiato questa volta formazioni come l’Unione cattolica italiana o Italia cristiana, che non hanno più inserito croci riconoscibili nei loro simboli); viene piuttosto da domandarsi se sia stata la croce rossa, generalmente legata alla Croce Rossa, a generare l’esclusione della lista No alla chiusura degli ospedali, o se non si sia trattato piuttosto di un uso di segno distintivo non autorizzato. E’ questa, infatti, la causa quasi certa dell’esclusione dei contrassegni Noi consumatori – liberi da Equitalia e di No Gerte Equitalia: in entrambi i casi, l’uso del nome avrebbe dovuto essere permesso dall’avente diritto (da Equitalia in questo caso).

Da ultimo, curiosa è la ricusazione che riguarda Forza evasori – Stato ladro: è probabile che il contrassegno della formazione legata a Leonardo Facco sia stato escluso dal Ministero dell’interno perché visto come una sorta di apologia di reato (dell’evasione fiscale, esattamente) e perché il nome stesso ne commetteva un altro, probabilmente uno dei reati di vilipendio previsti dal Codice penale (forse il “vilipendio della Repubblica” ex art. 290). Era un esito almeno in parte prevedibile, considerando che nel 2001 un contrassegno che riportava la scritta “Basta ladri” (Italia unita dei liberaldemocratici), presentato da Luciano Garatti, era stato bocciato proprio per lo stesso motivo e la frase era più sibillina (non è che si desse del ladro allo Stato), per cui fu purgata con un semplice e secco “Basta!” e il nuovo emblema passò. Del criterio non c’è traccia all’interno dell’articolo 14 del t.u. Camera, ma il Viminale è stato fermo nella ricusazione, creando di fatto una nuova regola da seguire in futuro. I rappresentanti di Forza Evasori – Stato ladro hanno già annunciato che non presenteranno un emblema nuovo, né faranno ricorso; c’è ancora tempo, invece, per porre rimedio alle altre ricusazioni.

Gabriele Maestri

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