Renzi, Salvini, Berlusconi, persino Luigi Di Maio hanno tutti lo stesso assillo: allargare più possibile una base elettorale che, così come appare dai sondaggi, non può far dormire sonni tranquilli. Non sta sugli allori il centrodestra, che pare in vantaggio ma deve guardarsi dai recuperi altrui delle ultime settimane.
Né può stare sereno Matteo Renzi, il quale sembra non infilarne più una dalla sconfitta atroce al referendum costituzionale di un anno fa. Non può ritenersi appagato Di Maio che con il MoVimento 5 Stelle potrebbe anche guidare il primo partito italiano, ma rischia il famoso pugno di mosche se le coalizioni avversarie lo supereranno sommando le percentuali.
Dunque, vuoi per il Carnevale in arrivo o per il desiderio di fare breccia nell’elettorato quanto mai stanco e insensibile ai messaggi di natura politica, tutti i candidati – o leader degli schieramenti che dir si voglia – sembrano concentrati a indossare una maschera assai diversa da quella con cui si sono presentati negli ultimi anni.
Prendiamo, ad esempio, Matteo Renzi. L’ex premier nei giorni scorsi, guardando i sondaggi tutt’altro che positivi, ha pensato di chiudere i ponti con il Cavaliere, in un’intervista in cui ha dichiarato apertamente di non voler concludere mai più alcuna alleanza con Forza Italia.
Un fulmine a ciel sereno, mentre da più parti si vaneggia di Renzusconi anche per il 2018 e il ricordo del Nazareno è sempre vivido nelle menti dell’opinione pubblica, così come dei diretti interessati.
La ragione di questa giravolta è semplice: il segretario Pd ha capito che se non invertirà la tendenza, difficilmente tornerà a Palazzo Chigi. Gran parte dell’elettorato percepisce il Partito democratico come naturalmente predisposto a concludere una grande coalizione con Berlusconi e compagnia, così come avvenuto all’indomani delle urne già nel 2013, quando primo ministro divenne Enrico Letta.
La dipartita di Giuliano Pisapia dalla contesa elettorale, l’unica figura che avrebbe potuto tenere incollato – sebbene a fatica – il centrosinistra, ha indubbiamente aperto uno spazio nell’arco anti Cav ancora molto vigile sull’argomento. E Renzi ha provato a tuffarsi immediatamente col rischio che, però, i suoi trascorsi possano rendere le sue intenzioni una cartuccia a salve.
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E passiamo a Matteo Salvini, il quale, vista l’aria di ritorno dell’estrema destra anche al centro di un dibattito da cui finora è stata a fatica ostracizzata, ha pensato di cucirsi addosso un abito moderato nuovo di sartoria. Del resto, con i voti di tutto lo zoccolo duro leghista e l’arco post Msi in pugno, in coabitazione con Fratelli d’Italia, non resta che proporsi al centro, con un profilo più da statista.
Prima con la sortita napoletana tutt’altro che ostile rispetto ai vecchi tempi, poi con la dichiarazione a sorpresa, secondo cui gli immigrati regolari che “lavorano e portano un contributo alla nostra società” sono da ritenere cittadini italiani. Una affermazione netta, che però non porterà via un voto di quelli già consolidati a destra e, invece, proverà ad aprire uno spiraglio verso il centro, magari con lo scopo di rubacchiare qualche preferenza all’alleato Fi e ottenere così la guida della coalizione per una futuribile premiership.
Silvio Berlusconi, da par suo, è il maestro dei dietrofront, capace come nessun altro di mostrare mille e una faccia in campagna elettorale per compiacere il pubblico. Ora, la sua preoccupazione è quella di garantire pensioni minime alte ribadendo il no allo ius soli, che è di fatto il mastice dell’accordo con il Carroccio.
Ma il problema più grande per il Cav è dissimulare l’età che avanza. Malgrado i ceroni, le laccature e i fermagli, la sua immagine risulta irrimediabilmente desueta – benché al contempo rassicurante – dunque, una lama a doppio taglio che da qui a primavera però potrebbe farsi più affilata, man mano che gli impegni elettorali si faranno più fitti.
Infine, l’enfant prodige Luigi Di Maio. A capo del soggetto politico più antisistema, sta facendo grandi sforzi e capriole per mostrare alla classe dirigente il volto rassicurante del MoVimento. Incontri, think tank, colloqui con ambasciatori, qualche gaffe qua e là, ma lo scopo unico è mostrare il partito di Beppe Grillo come affidabile e in grado di governare. Un’impresa non semplice per un soggetto politico nato da un “vaffa” indiscriminato e fino a ieri tutt’altro che amico dei colletti bianchi e delle riunioni di palazzo.
Di fronte a questo panorama, come è possibile parlare di fake news se la campagna elettorale è essa stessa, per definizione, un festival delle bufale, in cui si stringono mille mani al giorno, si lascia una scia di promesse, si cerca di soddisfare l’elettorato per lo zero virgola tralasciando qualsiasi coerenza nel messaggio e nel sempre più vago programma?
La democrazia al tempo dei social è ormai questione di immagine e, soprattutto, di credenze diffuse, non importa se vere o finte, ciò che conta è che siano condivise. C’è sempre sullo sfondo, una maggioranza silenziosa, quella degli indifferenti o astenuti che siano: a loro si rivolge, soprattutto, quella grande commedia che è oggi la politica.
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