Alla luce dei risultati della ricerca*, la soluzione, in particolare, alla problematica dell’introduzione di un’eventuale digital tax dovrebbe seguire le seguenti direttrici:
- una più efficace modalità di individuazione delle stabili organizzazioni occulte, basata su parametri presuntivi predeterminati, individuando magari il requisito della territorialità (e quindi l’obbligo dell’imposizione) in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d’affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato. E questo anche in linea con l’impostazione della normativa Iva, laddove il Reg. UE n. 1042/2013, dal 1° gennaio 2015, ha infatti stabilito che per tali tipi di prestazioni l’Iva si paga nel luogo di stabilimento del committente (mercato di riferimento),
- la possibilità, da parte dei soggetti esteri, di fornire una prova contraria, in grado di superare l’efficacia presuntiva di tali parametri, anche attraverso un procedimento di contraddittorio con l’Amministrazione Finanziaria;
- l’applicabilità, in caso di mancato superamento delle presunzioni, di una ritenuta alla fonte sulle transazioni finanziarie, attraverso il coinvolgimento dei soggetti incaricati di eseguire i pagamenti verso soggetti non residenti per l’acquisto di beni e servizi acquisiti per via digitale.
Non si tratterebbe quindi di una nuova tassa, ma di una specifica previsione antielusiva, che consenta di individuare (semplicemente agevolando l’azione accertativa) la stabile organizzazione occulta in Italia. E non vi sarebbero ostacoli ad una tale previsione, tanto meno di compatibilità con i patti convenzionali.
Lo stesso modello Ocse (a cui tutti i trattati si conformano) prevede infatti, con formula di chiusura, che “le disposizioni dei paragrafi precedenti del presente articolo non pregiudicano l’applicazione delle disposizioni interne per pervenire l’evasione e l’elusione fiscale”.
La scelta di agevolare l’azione accertativa nei confronti di settori particolarmente “a rischio” non potrebbe comunque essere censurabile.
Non si tratta infatti di “inventare” una nuova nozione di stabile organizzazione, diversa da quella desumibile dai trattati e dall’interpretazione accolta in sede Ocse.
La prevenzione delle evasioni fiscali è del tutto in linea con i principi degli accordi internazionali, anche pattizi. Anzi, ne rappresenta il presupposto imprescindibile, al mancare del quale tutte le altre previsioni recedono.
A parte il fatto che in questi casi non si tratterebbe di applicazione delle Convenzioni, ma semmai di utilizzo distorto ed abuso delle Convenzioni stesse, è la stessa Ocse che invita gli Stati Membri ad adottare comuni misure di sfavore contro queste pianificazioni, fino alla “denuncia” formale delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, eventualmente vigenti.
E peraltro, anche la Corte di Cassazione (Sent. n. 4272 del 23 febbraio 2010, Sez. tributaria), ha espressamente stabilito che, a monte del problema di quale previsione applicare, se quella Convenzionale o quella nazionale, è d’obbligo sempre verificare l’eventuale uso distorto ed abuso delle Convenzioni in funzione di pianificazione fiscale aggressiva. E del resto, sottolinea giustamente la Corte, tale impostazione trova, oggi, conferma e specificazione nell’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale, che, con le due sentenze n. 348 e n. 349 del 24 ottobre 2007, ha chiarito che le disposizioni pattizie, sono comunque subordinate alla Costituzione e, quindi, non possono vulnerare le norme ed i principi da essa enunciati”, tra cui, appunto, anche l’art. 53 della Costituzione.
E infine, a partire dal 2003, il Commentario Ocse ha preso anche posizione sulla tematica del rapporto tra norme convenzionali e norme interne antielusive, come appunto sarebbe quella in esame, osservando che, laddove “le disposizioni contro l’abuso fiscale siano incardinate alle regole fondamentali della legislazione nazionale che determinano i fatti generatori dell’imposta, le stesse non sono influenzate dalle convenzioni in quanto dette regole sono estranee alla materia considerata dalle convenzioni fiscali. Pertanto di regola, non vi sarà conflitto tra tali disposizioni e le disposizioni delle convenzioni fiscali” (vedi Paragrafo 9.2 del Commentario all’art. 1 del Modello di Convenzione Ocse).
La conclusione è dunque che c’è urgente bisogno di sfidare gli abusi fiscali e di rivedere le regole tributarie sulle imprese, facendo sì che i ricavi e i profitti siano tassati principalmente nei Paesi nei quali le multinazionali li realizzano e non più dove a loro conviene di più.
Tirando le fila di tutto quanto evidenziato, possiamo concludere quanto segue in tema di digital tax:
- col termine digital tax non si dovrebbe fare riferimento ad una nuova tassa, ma si tratterebbe di un insieme di accorgimenti procedurali che mirino a regolare e ridurre il fenomeno dell’elusione fiscale nell’economia digitale,
- è necessario associare l’imposizione fiscale ai territori nei quali viene generato il valore. e in tale contrasto senz’altro utile è il fatto che dal 1° gennaio 2014, in ogni caso, le imprese e i professionisti che acquistano beni e servizi online sono obbligati ad effettuare le transazioni esclusivamente mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare i dati identificativi del beneficiario,
- il requisito della territorialità (e quindi l’obbligo dell’imposizione) dovrebbe sussistere, in tali casi, per presunzione, in caso di superamento di determinate soglie temporali e di volume d’affari, per tutti i compensi corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello stato,
- in sostanza, si tratterebbe di introdurre una ritenuta alla fonte ai pagamenti effettuati da soggetti residenti in un paese, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider non potendo però i consumatori finali operare da sostituti di imposta, l’unica soluzione per l’applicazione di tale ritenuta alla fonte comporterebbe il coinvolgimento diretto delle istituzioni finanziarie incaricate di regolare il relativo pagamento degli acquisti online,
- operando invece, eventualmente, nella direzione di un’incentivazione delle multinazionali della web economy alla tax compliance, si potrebbe prevedere (in alternativa o coordinata con le sopraindicate previsioni accertative) che se la casa madre è residente in un paese dove esiste una imposta sui redditi equivalente all’ires, si applica l’aliquota dello stato estero, a condizione che non sia inferiore al 50% dell’aliquota ordinaria ires. In tal modo, per esempio, google avrebbe poco interesse a stabilire la sede in irlanda. basterebbe in tal caso modificare l’art. 77 del tuir su aliquota ires (giustificandola, da un punto di vista di compatibilità costituzionale, proprio per la difficoltà, per il settore digitale, ad individuare un luogo fisco di stabilimento).
(*) La ricerca è stata svolta dai ricercatori, Dott. Luca Caterino, Dott. Lapo Cecconi, Dott. Marco Scarselli e Dott. Walter Spinapolice, sotto la Direzione del Dott. Giovambattista Palumbo, Direttore dell’Osservatorio Politiche fiscali Eurispes.
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