Con il duro j’accuse a Marco Travaglio, infatti, l’ex procuratore Antimafia si è scagliato duramente contro uno dei più noti – e documentati – giornalisti italiani, con il solo risultato di ottenere un polverone spropositatamene superiore all’eco che gli attacchi del vicedirettore del Fatto avrebbero ricevuto in condizioni normali.
La vicenda è nota: dopo l’elezione a presidente del Senato, il nome di Grasso è iniziato a circolare con insistenza anche per il ruolo di premier, nell’eventualità – tutt’altro da escludere – che Pier Luigi Bersani si trovi costretto ad abdicare, vista l’insufficienza dei numeri al Senato.
Un nome, quello di Grasso, che avrebbe potuto ricevere il placet anche di un’ala grillina, con il precedente dell’elezione alla guida di palazzo Madama, dove il fronte 5 Stelle si è spaccato, portando una truppa di senatori, poi venuta allo scoperto, a votare per la new entry del Pd.
Insomma, alla prima chiamata, era scattato l’allarme rosso in casa grillina: all’interno, perché i dissidenti hanno violato il Codice di comportamento, contravvenendo alla decisione presa in maggioranza; all’esterno, perché “pronti, via” e sono spuntate le prime crepe tra le file del MoVimento.
Non c’è da stupirsi troppo, dunque, se Marco Travaglio è intervenuto per stigmatizzare alcune “ombre” della figura di Grasso, in particolare riguardo l’elezione a Procuratore Antimafia, gradito anche al Pdl e, forse proprio per questo, tale da spodestare un candidato forte come Giancarlo Caselli. In quell’intervento, Travaglio, parlava a una parte consistente del proprio pubblico – o se vogliamo, dei suoi lettori – ossia la schiera di supporters del MoVimento 5 Stelle che, ipoteticamente, avrebbero potuto vedere di buon occhio un esecutivo proprio guidato da Grasso.
Il vero colpo di scena, però, è arrivato con l’intromissione della seconda carica dello Stato all’interno di un programma televisivo, dove Travaglio è stato tacciato di avanzare “accuse infamanti” e con l’invito a un duello “carte alla mano” il prima possibile.
Apriti cielo. In quel preciso momento, il giornalista, ben difeso dal conduttore Michele Santoro, ha capito di aver vinto e la dimostrazione è il trascinarsi infinito della querelle “confronto sì ma dove?”.
Già l’indomani mattina presto, Grasso accettava l’invito di Corrado Formigli, altro volto dell’approfondimento politico di La7 e conduttore del talk show “Piazza pulita”. A quell’invito, però, è stato lo stesso Travaglio a rispondere picche, chiedendo di tenere il dibattito sempre a “Servizio pubblico” o nella web tv del suo giornale, il Fatto Quotidiano. Da più parti, si è sottolineato come “Travaglio voglia giocare in casa”, mentre lui contrattaccava tirando in ballo addirittura il direttore della rete Paolo Ruffini, reo, a suo dire, di essersi accordato con il conduttore di “Piazza pulita” al fine di mettere da parte la trasmissione del giovedì sera.
Insomma, il solito labirinto di attacchi e veti incrociati, dove professionisti della comunicazione si guardano di sottecchi e la seconda carica dello Stato, pur nell’intento nobile di difendere la propria onorabilità personale, si trova gettata nella mischia del pollaio televisivo. La discussione è talmente degenerata, che ormai siamo alla conta degli sms e dei tempi di risposta tra gli interlocutori.
Tra le condizioni poste da Travaglio al confronto con Grasso, poi, c’è quella del “Sì al confronto, purché non si accordino prima con Grasso”. Anche il fido Michele Santoro, però, nella storica puntata di Servizio pubblico con ospite Berlusconi, si guardò bene dall’inchiodare il Cavaliere sui propri processi, magari mettendolo all’angolo con le intercettazioni più scottanti. Anche lì, infatti, si è parlato di accordo tra le parti.
La verità è che, dietro agli interessi più nobili, è impossibile tralasciare il tornaconto innescato dal circo mediatico. Lo scontro Travaglio-Grasso sicuramente sarebbe uno dei picchi stagionali per la rete e tutti vorrebbero esserne gli officieri, con spot venduti a peso d’oro e tante prime pagine nei giorni a seguire. Allora, ecco che, per la seconda carica dello Stato, trovarsi immischiato in un meccanismo simile non solo finisce per essere uno svilimento istituzionale ma, in prospettiva di governo, non è stato altro che il più classico degli autogol.
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