Così il Tribunale di Milano, in veste di giudice del lavoro, con la sentenza 18/05/2016 n. 1539/2016 stigmatizza la deliberazione 21/2015 della Corte dei conti, Sezione Autonomie, in merito alla possibilità per i segretari comunali di percepire i diritti di rogito, quando siano incaricati in sedi di segreteria nelle quali non siano presenti dirigenti.
Il punto focale della sentenza del Tribunale di Milano non consiste tanto nell’aver sancito che l’interpretazione letterale dell’articolo 10, comma 2-bis, del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014, impone di pagare i diritti di rogito anche ai segretari comunali di fascia B ed A, se operanti in enti senza dirigenza, quanto nella critica estremamente forte rivolta alla decisione della Sezione Autonomie. Una critica necessariamente da considerare estesa al complessivo modus operandi della Corte dei conti in sede di “controllo collaborativo”, ma anche alle molte, troppe altre autorità che ingeriscono fortemente nell’autonomia operativa dell’amministrazione attiva, come Aran, Anac, dipartimenti ministeriali prodighi di pareri e direttive, Ispettorato del Mef.
Sono ormai moltissimi i casi in cui i giudici del lavoro smentiscono in modo radicale pareri espressi da autorità amministrative o anche dalla magistratura contabile sul tema del rapporto di lavoro. Si ricorderà il giudice del lavoro di Verona che ha smentito l’assunto da sempre dato per scontato da Aran ed Ispettorato secondo il quale gli agenti di polizia comunale o provinciale non potessero cumulare all’indennità di polizia locale quella di rischio o di disagio. Ma, non sono pochi nemmeno i casi nei quali le sentenze lavoristiche considerano detti pareri delle varie autorità semplicemente irrilevanti.
E’ fondamentale tenere presente la differenza enorme che tutt’ora sussiste tra giudice giudicante e giudice operante in sede di controllo collaborativo.
Solo il primo decide un caso concreto, alla luce di fatti e prove o analisi documentali specifici, applicando in maniera minuta le disposizioni normative, con la possibilità di interpretarle ai fini appunto della decisione del caso concreto. Le sentenze proprio per questa ragione fanno stato solo tra le parti, potendo costituire solo un riferimento interpretivativo rilevante, per casi che potranno essere comunque nella maggior parte dei casi solo analoghi, ma mai uguali. Infatti, le sentenze di un giudice non vincolano le decisioni di altri giudici e solo la Cassazione può operare in sede nomofilattica, fermo restando sempre un possibile cambio di orientamento e senza pregiudicare l’autonomia del giudice di merito.
La Corte dei conti, investita del potere di controllo “collaborativo” dalla legge 131/2003, svolge una funzione ibrida: si tratta di un giudice che, però, non giudica, ma esprime pareri senza ascoltare le parti. Ma, questo è un punto fondamentale, senza trattare il caso esaminato sul piano concreto. Proprio perché non si tratta di un giudizio frutto di un dibattimento, ma solo di un parere, la Corte dei conti, con le sezioni regionali di controllo e la Sezione Autonomie, si pronuncia in termini generali ed astratti su quesiti che, a loro volta, debbono dimostrarsi possedere requisiti a loro volta di generalità ed astrattezza, pena la loro inammissibilità.
Inevitabilmente, quindi, le pronunce dei pareri, sollecitati sulla base di problemi estremamente concreti, ma “edulcorati” ai fini dell’ammissibilità della richiesta, non scendono nell’analisi del fatto e del documento, nè, come rilevato sopra, è data possibilità di un qualsiasi contraddittorio con l’amministrazione interessata.
Si tratta di una funzione molto diversa dal controllo tradizionale sugli atti. Questo esigeva l’analisi dettagliata del provvedimento, l’esame dell’assenza da vizi di legittimità e di forma e, quindi, una valutazione molto dettagliata del contesto normativo. E non si deve dimenticare che, ad esempio, i vecchi e vituperati Co.Re.Co. consentivano un intervento nel procedimento di controllo, con la richiesta di chiarimenti ed audizioni, sì da permettere anche un contraddittorio sul caso specifico.
Né gli atti di controllo avevano la pretesa di assurgere a pronunce generali di diritto, a valore erga omnes.
Accade, invece, che sempre più un giudice non giudicante, in sede di pareri generali ed astratti, finisca non per esercitare un controllo collaborativo alla soluzione di casi specifici, ma per emettere pronunce a valore generale, spesso eccedenti la funzione di controllo, perché si spingono fino alla creazione di fattispecie giuridiche vere e proprie di carattere innovativo, che impattano in modo fortissimo su migliaia di amministrazioni locali, pur partendo da un problema molto specifico.
La Corte dei conti, dichiaratamente, agisce, per altro, non in termini di stretto diritto. Molte volte le pronunce sono influenzate da esigenze di “rigore” riferite al contesto finanziario. I pareri sono sempre più frutto di quella “finanziarizzazione” dell’ordinamento e dei rapporti, di cui ben parla Otello Lupacchini ne Il Fatto Quotidiano on line del 24/5/2016, nell’articolo “Referendum, pericoloso scambiare le pecche della politica con quelle dell’ordinamento costituzionale”.
La “finanziarizzazione” vuole prendere il sopravvento avverso una presunta juristocracy, affermando che i rapporti tra cittadini, imprese, Stato, vadano regolati sempre meno mediante i canoni della legge e sempre di più con l’occhio del determinismo economico.
Un errore di prospettiva clamoroso. Perché se è vero che la politica diviene sempre più “economica”, e se altrettanto vero è che occorre dare libero sfogo al mercato ai fini della crescita, ancor più vero è che occorrono leggi tanto più necessarie per regolare i rapporti economici, sì da evitare che le posizioni di forza asimmetriche proprie delle regole finanziarie creino una giungla, nella quale solo i predatori sopravvivono: i casi della risoluzione delle famose 4 banche italiane sono emblematici di quanto la legge, la sua corretta interpretazione ed applicazione siano un prius necessario a qualsiasi mera valutazione di carattere finanziario o solo economico.
La Corte dei conti da anni insegue la “finanziarizzazione”. I concorsi selezionano i magistrati puntando sempre meno sulla competenza giuridica e sempre più su quella finanziaria, inseguendo le voci che da anni pretendono un’amministrazione pubblica, uno Stato e perfino una magistratura attenta alle esigenze del mercato. Basti ricordare le polemiche davvero paradossali contro le sentenze con cui lo scorso anno la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale della sanatoria dei dirigenti senza titolo delle Agenzie, dell’abolizione dell’indicizzazione delle pensioni e del blocco sine die dei contratti pubblici.
Ma, le regole del diritto debbono essere valutate secondo diritto e non secondo valori diversi, che si vorrebbe premettere alle regole stesse.
L’idea sempre più spesso affermata dai magistrati contabili di voler interpretare le norme in termini di rigore finanziario non può non portare ad operazioni di forzatura, come crudamente indicato dal Tribunale di Milano, fino a giungere alla “chirurgia giuridica”: cioè, leggendo le norme per quella sola parte utile e funzionale ad una visione predeterminata.
Ma, si ripete, questo modo di operare è comune a troppi soggetti che si ergono, alcuni avendo anche ricevuta piena legittimazione da parte del Legislatore, ad interpreti ultimi e generali della legge, quando non a veri e propri poteri legislatori.
Molti pareri della Corte dei conti, così come delle molte autorità indicate sopra, non solo operano “chirurgicamente” per indurre ad una lettura della norma funzionale ad un’idea preesistente ma non presente nella norma vista nel suo complesso; anche più spesso, forniscono chiavi di lettura “additiva”, cioè integrativa dei contenuti della norma stessa, finendo per estenderne portata e contenuti, sì da giungere, per via interpretativa, a porre in essere una regola nuova e diversa, che va oltre il dato della legge.
Non di rado introducendo vincoli, limiti, tetti, percentuali, strumenti di calcolo assolutamente non presenti nei testi normativi e fissati in quel momento. Come non riferirsi alla pretesa di considerare come “sfidanti”, aggettivo inesistente nella disciplina contrattuale, gli obiettivi di cui tratta l’articolo 15, comma 5, del Ccnl 1.4.1999? Come non riportare alla memoria le recenti pronunce che pretendono di far rivivere un obbligo di riduzione annuale della spesa di personale, abolito proprio dal d.l. 90/2014? Come non ricordare le pronunce che hanno considerato non ricompresi nei vincoli alla spesa del personale flessibile i dirigenti assunti a tempo determinato, salvo poi, dopo 5 anni, ricredersi e gettare nello scompiglio i conti? E si potrebbe continuare.
In più, i pareri della Corte dei conti non sono soggetti a gravami, a differenza, ad esempio, della sentenza del Tribunale di Milano, esposta ad un riesame in sede di eventuale appello, opportuno e necessario per consentire approfondimenti ulteriori, volti ad eliminare eventuali errori operativi.
Il Tribunale di Milano, involontariamente, ma in modo molto deciso, mette il dito nella piaga e come il bambino della celeberrima fiaba rivela che il re è nudo: la funzione di regolazione tramite pareri, la soft law (che è solo agli albori di una enorme espansione) sono andati troppo oltre. Appare urgente e necessario definire al più presto e una volta per sempre quali sono i confini entro i quali Corte dei conti ed altre autorità si muovono.
Non è possibile, in particolare, che i pareri e le funzioni di regolazione si scontrino con la giurisprudenza giudicante in modo insanabile, creando per le amministrazioni quell’’incudine e quel martello, in mezzo ai quali non riescono a svolgere con chiarezza la propria funzione.
Il sistema deve essere ripensato, sfrondandolo dalle troppe ramificazioni. La funzione di controllo è essenziale. Ma, si torni a svolgerla mediante autorità amministrative, che esamino casi concreti e su di essi si pronuncino, con atti assoggettabili a gravami. I giudici intervengano solo per pronunciare sentenze e solo a valle di un processo di controllo volto ad autoregolamentare ed auto correggere l’azione amministrativa, senza che i pareri si sostituiscano al legislatore o all’agire amministrativo concreto, proprio perché non possono disporre del potere di indirizzo politico, né della concretezza operativa dell’agire proprio dell’amministrazione attiva.
In mancanza di questa presa d’atto dell’eccesso cui si è pervenuti, la confusione ed il caos operativo, ma anche interpretativo, saranno inevitabili, come sempre più frequenti saranno plateali e paradossali conflitti tra giurisdizioni che leggono stesse norme in modi diametralmente opposti e inconciliabili.
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